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Il cristianesimo afferma ciò che per la filosofia greca era impensabile, come aveva mostrato con chiarezza la riflessione sulla distanza tra logos e carne nella tradizione antica: il Logos si fa carne. Non resta nell’altezza dell’intelligibile, ma entra nella storia. Nasce, cresce, soffre, muore. Paolo lo chiama kenosis: svuotamento. Non una maschera, non una finzione, ma l’assunzione reale della condizione umana, con tutta la sua fragilità. È qui che la frattura con il pensiero greco, così come l’aveva ricostruita Gabriele Giannantoni, diventa irreversibile.
Se questo accade, nulla resta come prima. La materia non è più soltanto ciò da cui fuggire. Il corpo, il lavoro, la vita quotidiana diventano luoghi possibili di senso. Non perché tutto sia già redento, ma perché nulla può più essere dichiarato, in linea di principio, estraneo al significato. Il cristianesimo storico ha spesso tradito questa intuizione; ma nel suo nucleo resta un’affermazione radicale: il senso non abita fuori dal mondo.
Cambia allora anche il volto della storia. Non è più soltanto ripetizione o decadenza, ma luogo dell’evento. Il tempo acquista direzione e responsabilità. L’agire umano pesa, espone, decide. È qui che nasce la grande promessa occidentale: la storia può essere trasformata. Ma è anche qui che si annida il rischio, quando la promessa si irrigidisce in ideologia e la redenzione diventa violenza. L’inquietudine che attraversa questo passaggio — l’impossibilità di una pacificazione definitiva — è quella che la filosofia contemporanea ha riconosciuto come destino del pensare, e che Gennaro Sasso ha indicato, leggendo Heidegger, come tratto costitutivo della modernità.
In questo movimento prende forma anche una nuova idea di persona. L’uomo non è più soltanto individuo o funzione di un tutto, ma unicità irriducibile. Da qui discendono, anche in forma secolarizzata, la dignità, i diritti, il valore della coscienza. Anche chi rifiuta il cristianesimo continua a vivere dentro questa eredità, spesso senza saperlo.
Per questo l’incarnazione riguarda tutti, credenti e non credenti. Anche l’ateismo occidentale ne è figlio. Nietzsche lo vede con lucidità quando afferma che “Dio è morto”: non sta tornando ai Greci, sta prendendo atto che quel Dio ha plasmato l’intero orizzonte occidentale e che la sua assenza non libera, ma apre un vuoto inquietante. È la radicalità di questo gesto — come ha mostrato Ferruccio Masini — a impedire ogni nostalgia e ogni facile ritorno.
Ma dal Natale nasce anche il lato oscuro dell’Occidente: l’antropocentrismo che giustifica il dominio sulla natura, l’idea di progresso senza limiti, la tecnica che riduce il mondo a pura disponibilità. La stessa tensione che genera emancipazione può trasformarsi in hybris. La stessa inquietudine che apre alla speranza può rovesciarsi in distruzione. Ernst Bloch lo aveva compreso: la speranza non è garanzia, ma esposizione al non-ancora, e proprio per questo può fallire.
Ecco perché siamo inquieti. Non possiamo più abitare serenamente né il puro spirito né la pura materia. Non possiamo fuggire dal mondo, ma non riusciamo nemmeno a dominarlo senza perderci. Viviamo nella soglia.
Per me il Natale è questo: l’impossibile che è accaduto e che ci ha resi ciò che siamo. Non una favola, non una consolazione, ma una domanda che non smette di interrogarci. È la domanda di senso che nessuna mercificazione riesce a cancellare. A quella domanda si può rispondere in modi diversi, ma non la si può evitare. Come ha mostrato una parte decisiva della filosofia contemporanea, da Jean-Luc Marion in avanti, il senso non è ciò che possediamo, ma ciò che si dà e, nel darsi, ci supera.
Il Natale non consola. Espone. Non addolcisce. Inquieta. Non chiude. Apre.
Buon Natale. Nella consapevolezza di ciò che siamo.
N.B. Ho citato soltanto alcuni nomi delle persone con cui ho studiato e che mi hanno accompagnato lungo questo percorso. Non come autorità da esibire, ma come incontri reali, decisivi, che mi hanno condotto a queste conclusioni e che ancora oggi mi permettono di dare un senso profondo al mio essere.
Un senso che non è certezza, ma consapevolezza del limite. Nella grande illusione che pure ci costituisce, quella che Eugenio Montale ha saputo dire come nessun altro: l’attimo in cui, andando una mattina, sembra aprirsi uno squarcio di verità, subito richiuso, lasciandoci però segnati per sempre da ciò che abbiamo intravisto — il nulla alle nostre spalle, e insieme la necessità di continuare a camminare.
FINE

Georges de la Tour, Il neonato (Le nouveau-né)
Georges de La Tour e il Natale, l’impossibile che ci riguarda tutti condividono la stessa intuizione radicale: il sacro non è altrove, ma abita il mondo così com’è. Nei suoi quadri il divino non si impone, non si proclama, non si distingue nettamente dal quotidiano; è la luce, discreta e silenziosa, a suggerirne la presenza. Allo stesso modo, il Natale non consola né risolve: è l’irruzione dell’impossibile nella carne, l’esposizione di Dio alla fragilità umana, senza garanzie né pacificazioni.
La Tour dipinge corpi comuni, gesti minimi, volti anonimi, e li trasfigura senza separarli dalla loro povertà. Il cristianesimo, nella sua intuizione originaria, compie lo stesso gesto: afferma che il senso non sta fuori dalla storia, ma dentro la materia, il tempo, la responsabilità. Da qui nasce tanto la promessa occidentale della dignità e della trasformazione quanto la sua ombra: la hybris del dominio, l’illusione di possedere il senso.
In entrambi i casi non c’è trionfo, ma soglia. Silenzio, non retorica. Inquietudine, non conforto. Il Natale, come la pittura di La Tour, non chiude il discorso: lo apre. Espone l’uomo a una domanda che resta, a una luce che non si possiede, ma che per un attimo – e solo per un attimo – lascia intravedere che il senso accade nel mondo, senza mai coincidere con esso.





