«Le cose stanno così». «Come fai a saperlo?»: uno scambio del genere, tanto elementare, evoca uno dei nodi più complessi del pensiero occidentale. Per dirla in breve: il secondo interlocutore sta chiedendo al primo di giustificare il suo asserto; in sostanza, pone in dubbio la verità di quanto il primo sostiene, il che equivale a chiedere per quale motivo l’asserto in questione dovrebbe essere vero. Chi pone la domanda si riterrebbe probabilmente soddisfatto se le cose stessero effettivamente come è stato affermato. Come accertarlo, però?
Nelle lingue indo-europee, e nella variante latina, ciò che noi chiamiamo «verità» deriva da un termine sanscrito che significa «fatto», «accadimento»; oppure, nella variante germanica, da termini proto-indo-europei che stanno per «albero», «solido»; infine, nella variante greca, da un termine che sta per «disvelamento», «eliminazione dell’oscurità». Accertare la verità, nelle nostre culture, significa pervenire a ciò che dà origine, e giustifica, le nostre credenze specifiche. Scoperta e giustificazione sono i processi, o le azioni (strettamente intrecciate) che dovrebbero condurci alla verità, se mai se ne desse qualcuna.
Nel corso dei secoli, i criteri accolti per scoprire e giustificare qualcosa (per la vita ordinaria, e per gli specialisti dell’umano sapere) sono andati mutando. Quando le circostanze e gli interrogativi lo suggerivano (per esempio: per il loro carattere ripetitivo), si è immaginato che si potessero fissare regole (per le scoperte e le giustificazioni) e stabilire addirittura un metodo: nell’origine greca, il termine equivale a «seguire la via», indica cioè le regole della ricerca. Agli albori del moderno, quando la scienza ha iniziato ad assumere un ruolo particolare, si è andata consolidando l’idea che il «metodo scientifico» costituisca il modello più alto e maturo di tutte le conoscenze umane. Il problema, comunque, restava: in luogo della domanda: «come fai a saperlo?», gli specialisti si affrontavano ora sulla questione: «cosa è mai il metodo scientifico?». E, ancora: «perché mai dovremmo adottarlo?».
Tre i principali bersagli
Giusto un secolo è passato quest’anno dalla nascita di un vero e proprio enfant terrible della filosofia della scienza contemporanea, Paul Karl Feyerabend, e quasi mezzo secolo dal suo capolavoro, che Feltrinelli sta per ripubblicare, in una «edizione definitiva»: Contro il metodo Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, pp. 384, € 30,00). Feyerabend era convinto che tutte le conoscenze, anche quelle cosiddette scientifiche, non scaturiscano dall’applicazione di uno o più metodi; e che, anzi, fosse proprio impossibile rinvenire – nella storia intellettuale dei sapiens – la messa a punto, l’applicazione e il perfezionamento di metodi, atti a garantire la verità delle conoscenze acquisite. Di più: anche tracciare un confine, tra ciò che appartiene alla scienza e ciò che non le appartiene (la magia, l’astrologia, la parapsicologia, e altre pratiche analoghe) si rivelerebbe, a un’analisi approfondita, proprio impossibile.
In particolare, erano bersagli specifici della critica di Feyerabend tre presunti metodi di selezione e di «crescita» delle conoscenze umane. Il primo, riferito tradizionalmente all’opera di Galileo Galilei, è quel «metodo» che prescrive l’applicazione di regole logiche ai dati empirici. Una volta entrato in crisi questo modello (perché i dati empirici e la logica non sono affatto sufficienti per formulare teorie), intorno alla metà del secolo scorso si andò affermando l’idea che un criterio di demarcazione dell’ambito scientifico – rispetto a ciò che non appartiene alla scienza – potesse essere la disponibilità al controllo empirico, cioè l’attitudine delle teorie scientifiche a essere eventualmente «falsificate». Ma anche questo modello entrò in crisi, e molto presto, ovvero quando si dovette riconoscere che gli specialisti non sono così propensi a rinunciare a teorie consolidate in presenza di occasionali anomalie, ma cercano ormai di sorreggerle, con nuovi controlli e ipotesi supplementari.
Insieme e contro Lakatos
E arriviamo così al terzo bersaglio della critica di Feyerabend, rivolta alle tesi di un suo carissimo amico e collega – Imre Lakatos – dal quale egli si attendeva anzi una integrazione, una sorta di controcanto, alle tesi espresse nel suo volume. Dalla fine del 1969 e fino alla morte di Lakatos (all’inizio del 1974), una fitta corrispondenza tra i due documenta il progetto di affiancare a Contro il metodo una replica di pugno di Lakatos – una Metodologia contro il metodo –, che non venne mai alla luce. Di Lakatos, ci resta però la fertile tesi secondo cui la scienza procederebbe per «programmi di ricerca», messi a punto e sviluppati a partire da «enigmi scientifici», fino a quando nuove acquisizioni e nuovi ipotesi non determinano «rivoluzioni», e l’affermazione di programmi di ricerca nuovi.
In questo caso specifico, la critica di Feyerabend andava a colpire l’idea che la storia delle conoscenze umane fosse davvero ricostruibile come un processo razionale; e che il confronto tra programmi di ricerca non si giovasse di imbrogli, costruzioni fittizie di dati, argomentazioni retoriche, influenze personali, pressioni politiche, vantaggi di tipo economico o sociale. Per dirla con le sue parole: «non c’è una singola norma, per quanto plausibile e per quanto saldamente radicata nell’epistemologia, che non sia stata violata a un certo punto»; «la scienza è un’impresa essenzialmente anarchica: l’anarchismo teorico è più umanitario e più aperto a incoraggiare il progresso che non le sue alternative fondate sul rispetto dell’ordine costituito».
Feyerabend sopravvisse per vent’anni all’amico e collega Lakatos. Ebbe il tempo di assistere alla nascita e all’affermazione della cultura soi disant «postmoderna». Malgrado sia documentato un apprezzamento di Jean-François Lyotard nei suoi confronti, e lui stesso avesse giudicato «meravigliosa» la Storia della follia di Michel Foucault, il suo «disprezzo» per il relativismo, insieme all’umanesimo di fondo che ispirava la sua visione non consentono di ricondurre la sua opera alla congerie «postmoderna» di atteggiamenti e di idee. Piuttosto, è più agevole riferirla a una «svolta storica» particolare – nella filosofia della scienza – che si andò affermando nei primi anni Sessanta del secolo scorso, e che vide nell’opera di Thomas Khun, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, un cardine fondamentale.
In verità, già negli anni Trenta del Novecento (grazie ai lavori dello storico olandese George Sarton, del fisico sovietico Boris Hessen, del biologo polacco Ludwich Fleck e del filosofo francese Alexandre Koyré) era stata riconosciuta l’importanza del contesto e dei fattori sociali, di quelli politici ed economici, in ogni impresa scientifica. Già era stato osservato (da Koyré, giustappunto) che Galilei non aveva affatto eseguito tutti gli esperimenti che gli venivano in genere attribuiti, e nemmeno quelli che lui stesso aveva dichiarato.
Sicché, anche nelle «rivoluzioni» che hanno segnato la nascita del moderno (come quella copernicana) un attento studioso avrebbe potuto cogliere tuttora in opera problemi e concetti squisitamente medievali. Di certo, però, gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso – grazie al contributo di Kuhn, Lakatos, Feyerabend e di altri studiosi – conobbero l’apice di un effettivo historical turn, nella riflessione critica sul sapere scientifico.
Giunse poi l’epoca delle scienze cognitive e della ricerca scientifica «assistita» dagli elaboratori elettronici. I filosofi della scienza – consapevoli ora del fatto che ogni criterio metodologico conosce limitazioni (perché esposto a smentite, aggiustamenti e – semmai – all’abbandono) ripresero a occuparsi di metodologia. E – anche riconoscendo la passione critica e la forza intellettuale di maestri come Feyerabend – accolsero l’immagine che costui preferiva dare di sé: un dadaista, un artista, un irriverente, un uomo incline a prendere troppo alla leggera le cose, perché fosse possibile costruire, grazie al suo esempio, una professione così onorevole e seria, come è (o dovrebbe essere) quella del perfetto accademico.