di Giovanni Orsina
All’ormai ben noto intervento che Giovanni Donzelli ha svolto alla Camera dei deputati martedì scorso potrebbe essere applicata la celebre frase che Joseph Fouché (ma forse fu Talleyrand) avrebbe detto in occasione del rapimento e della fucilazione del Duca d’Enghien: «È stato peggio di un crimine, è stato un errore». Il «crimine» in questo caso è di media gravità. Muovere al Partito democratico l’accusa di fiacchezza nella lotta alla mafia e al terrorismo è non solo ingiusto, ma porta il conflitto politico fuori dal terreno della civiltà. Però dal terreno della civiltà il conflitto politico, negli ultimi trent’anni, è uscito spessissimo, e sulla mafia le forze politiche progressiste ne hanno date ben più di quante non ne abbiano prese – leggasi alla voce «Berlusconi». Sfruttare il privilegio di stare al governo per raccogliere informazioni da usare nella lotta politica è quel che hanno sempre fatto tutte le maggioranze. Solo – ma non è poco – bisogna avere l’accortezza di non oltrepassare sotto gli occhi di tutti la linea assai delicata che separa le istituzioni dalla politica. Da questo punto di vista, che una parte delle notizie richiamate in aula da Donzelli fosse stata pubblicata da Repubblica è un’aggravante: il deputato avrebbe potuto ottenere lo stesso risultato politico utilizzando i dati di dominio pubblico senza «scoprire» l’apparato del ministero della giustizia.
Veniamo così all’errore. Seguendo le pulsioni autolesionistiche alle quali ci ha ormai abituato da anni, il Partito democratico si stava infilando nell’ennesimo vicolo cieco. È ben evidente, infatti, che per il buco che Alfredo Cospito sta cercando di aprire nella rete del 41 bis potrebbero cercar di passare pure i condannati per mafia. Ed è altrettanto evidente che adesso più che mai, dopo l’arresto di Messina Denaro, l’opinione pubblica non perdonerebbe chiunque potesse esser sospettato d’indulgenza nei confronti della criminalità organizzata. Politicamente, insomma, la maggioranza si trovava in una posizione favorevole. Favore che l’improvvida sortita di Donzelli ha convertito in svantaggio, consentendo al Partito democratico di spostare l’attenzione sull’abuso delle istituzioni e sull’uso politico di una delicata questione di ordine pubblico.
La lettera che Giorgia Meloni ha scritto sabato al Corriere della sera non è stata sufficiente a rimediare alla condizione di svantaggio, né avrebbe potuto esserlo. L’appello a concentrarsi sulla sfida anarchica è debole fin quando essa rimane allo stato potenziale. Quello ad abbassare i toni non potrà mai convincere l’opposizione se al contempo il Presidente del Consiglio continuerà a difendere Donzelli e Delmastro. Ma se smettesse di difenderli Meloni pagherebbe un prezzo politico e, con ogni probabilità, anche personale assai caro, che non pare abbia la minima intenzione di sopportare. Il Partito democratico lo sa, e alza la posta. Ne esce infine una sorta di stallo alla messicana destinato, a meno che non accadano fatti nuovi, a concludersi naturalmente nel momento in cui l’attenzione pubblica si sposterà altrove.
Mentre i «messicani» decidono come uscirne, possiamo in conclusione abbozzare due riflessioni. La prima, che la vittima principale di questa vicenda è un dibattito pubblico decente sul 41 bis. Quello previsto dal 41 bis è un regime carcerario indegno di un Paese civile che tuttavia, trent’anni fa, è stato reso necessario da una drammatica emergenza storica. L’emergenza è passata da un pezzo, ma il regime rimane. È lecito chiedersi se la sua permanenza, in questa forma, sia oggi giustificata. Una domanda, sia ben chiaro, alla quale non saprei in alcun modo rispondere per assoluto difetto di competenze, ma alla quale, peccando d’ingenuità, vorrei potesse dar risposta un discorso pubblico pacato e maturo.
La seconda riflessione verte su una certa aria da cittadella assediata che sembra respirarsi intorno al governo Meloni. Che, certo, ha senso se si guarda al passato: una cultura abituata a pensarsi minoritaria ed esclusa; un Presidente del Consiglio che si definisce un «underdog»; i ridicoli e patetici allarmi dei mesi scorsi, in Italia e all’estero, sul fascismo alle porte. Ma non ha nessun senso, e può anzi fare gran danno, quando si guardi invece al presente e al futuro. A oggi, si potrebbe forse dire che nessun governo della nostra storia recente abbia goduto di un parallelogramma delle forze politiche così fortunato. Il quadro atlantico è favorevole. L’Europa è rassegnata con perfino qualche punta di benevolenza. I partner di maggioranza non hanno alternative. L’opposizione è talmente a pezzi da doversi aggrappare – appunto – al caso Donzelli. La cultura progressista è afona come non è mai stata: basti immaginarsi i caroselli cui avremmo assistito vent’anni fa se il governo Meloni fosse nato allora. L’underdog è diventato oggi un overdog. Al quale si chiede di uscire dalla cittadella e di mettere sul terreno quattro o cinque progetti politici che indichino la direzione al «branco» italiano.
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