Risultati che, anziché indicare l’esistenza di una «internazionale sovranista», come qualcuno l’ha definita, sembrano piuttosto suggerire l’emergere di una «internazionale degli antagonisti», tenacemente contrapposti all’ordine politico-culturale finora esistente. A legare i suoi membri non è tanto un’ideologia economica o sociale — conservatrice o populista che sia — quanto il rifiuto di un modello che, nei fatti, appare oggi in crisi. Uno spirito di rottura che cresce in maniera sempre più pervasiva, mostrando, come mai prima d’ora, una chiara volontà di cambiamento: per qualcuno positiva, per molti spaventosa. La paura non deriva solo dall’incertezza su come si comporteranno le nuove forze, ma da una crescente percezione che, da questi stravolgimenti, con tutta probabilità, non emergerà un assetto stabile e definito. O almeno non nel prossimo futuro. Una prospettiva più angosciosa della «semplice» fine di un’epoca: a traumatizzarci è ancor più la comprensione che stia venendo meno ciò che ci sembrava eterno e indistruttibile.
Un’idea che affonda le radici nel passato: nel suo saggio del 1992, La fine della Storia e l’ultimo uomo, Francis Fukuyama individuava nella caduta dell’Urss la conclusione di un lungo percorso storico, che per millenni aveva visto le diverse fazioni umane scontrarsi per il predominio del mondo, fino a ridursi a un solo vincitore: l’Occidente liberale. La tesi di Fukuyama suscitò subito obiezioni, ma rispecchiava l’ottimismo culturale appartenente a quell’epoca: eliminato il pericolo dell’autodistruzione nucleare, sembrava che stesse per aprirsi un’era di prosperità globale, garantita dai valori liberal-democratici. Certo, il processo non era completo: esistevano realtà in cui i benefici di questo nuovo corso non erano ancora arrivati, ma si credeva fermamente che, presto o tardi, tutti avrebbero raggiunto quella maturazione. L’errore non è stato sognare che ciò fosse possibile, ma addormentarsi nell’illusione che il modello si sarebbe auto-perpetuato come un eterno punto di riferimento per l’umanità. Nel nostro sonno, ci siamo dimenticati che i nostri ideali avevano prosperato grazie a un costante rinnovamento, spesso frutto della fatica e del confronto, talvolta cruento.
Le cose si sono presto complicate: le realtà che ritenevamo marginali si sono rivelate essere una parte cruciale del mondo. I popoli che immaginavamo avrebbero seguito il nostro esempio democratico avevano altri progetti. Così, quando questi attori hanno reclamato la nostra attenzione, ci siamo risvegliati bruscamente dal nostro sogno: «la fine della storia» era finita. Con il crollo di quell’utopia che credevamo eterna, ci troviamo oggi immersi in una condizione di disagio costante, acuita ogni giorno da una crescente incertezza. È sempre più evidente che non basteranno le «ricette tecniche» per superarla, né possiamo distogliere lo sguardo rifugiandoci nel negazionismo. Il percorso è ben più lungo e complesso, e richiederà tempo per essere compreso e affrontato in modo adeguato. Imparare anzitutto a convivere con questa condizione di scomoda precarietà è, dunque, oggi la sfida più urgente che richiede sensibilità e determinazione. Dovrebbe essere proprio questa la prima e più importante funzione della politica: interpretare il momento storico e accompagnarci attraverso di esso. In un’epoca così ambigua, si tratta, tuttavia, di un compito estremamente difficile, e va riconosciuto. Aspettarsi dalle istituzioni risposte immediate e definitive sarebbe irragionevole e ingeneroso. Ciò che è giusto pretendere, invece, è la massima sincerità.
In una condizione così complessa, non è accettabile continuare a sostenere che tutto va bene, né tantomeno predicare ricette drastiche e risolutive, dimenticandosi del trauma e della fatica delle persone. Una leadership matura deve, prima di tutto, riconoscere questi sentimenti, nella consapevolezza che, anche se non è ancora il tempo della chiarezza, sarà già una conquista se si riuscirà a dare ascolto alla nostra angoscia.