Siamo a Limbadi, regno incontrastato della cosca Mancuso che, a queste latitudini, controlla anche il battito cardiaco delle persone. Il business “legale” passa da un’area al confine con il Comune di Nicotera dove, stando al progetto definitivo pubblicato dalla società Stretto di Messina Spa e dal Consorzio Eurolink, guidato da Webuild, sorgerà il deposito di materiale inerte, identificato come Cra3, “in una zona rurale” denominata “Petto”.
Lì verrà realizzata una delle opere propedeutiche al ponte: una discarica monstre, dove verrà riversato materiale per oltre un milione e mezzo di metri cubi. In una seconda area, invece, verranno stoccati “ulteriori 335 mila metri cubi di materiale a carattere temporaneo”. Per farlo, lo Stato dovrà espropriare oltre 70 mila metri quadrati di territorio, di cui quasi 60 mila sono di proprietà dei familiari dei Mancuso. Una frazione dei 3,7 milioni di metri quadrati di terreni che saranno espropriati a 2.792 proprietari tra Calabria e Sicilia.
Per fortuna che l’opera pubblica da 20 miliardi di euro doveva essere “un grande antidoto contro la mafia” o, meglio, “la più grande operazione antimafia dal dopoguerra a oggi”, secondo il copyright del ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini che, nel 2023, polemizzò addirittura con don Ciotti sostenendo che “il Ponte sullo Stretto è un modo concreto per combattere mafia e ’ndrangheta, dato che daremo lavoro a tanti giovani di quel territorio”.
Oltre a questi giovani che si dovrebbero spaccare la schiena per portare il pane a casa, però, ci sono i proprietari dei terreni dove, in una vecchia cava, nascerà la discarica. Non stiamo parlando di una zona edificabile, ma di un’area piena di erbacce, “una superficie posta su un rilievo collinare, un tempo utilizzata come cava di inerti per la produzione di calcestruzzo e dei rilevati compresi nelle opere di costruzione del porto di Gioia Tauro”. Un sito che “giace in stato di degrado e abbandono” e vale quasi zero visto che “l’intensa attività estrattiva nel corso degli anni, – si legge nel progetto – ne ha modificato l’assetto originario e oggi l’area appare profondamente deturpata, con spaccature e fratture ben visibili, anche a molti chilometri di distanza”. Era inevitabile perché i privati, “che avrebbero effettuato l’esercizio della cava (da tempo dismessa)”, “successivamente non hanno provveduto al ripristino ambientale degli scavi”. Una volta finiti i lavori per il Ponte, ciò che non hanno fatto i privati lo farà lo Stato, restituendo “all’ambiente naturale e alla collettività quel caratteristico paesaggio che è stato deturpato e lasciato in abbandono”.
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Nel frattempo, però, i privati vanno pagati sia per i terreni che saranno espropriati sia per le aree per le quali concederanno “l’occupazione temporanea” alla Stretto di Messina Spa. I loro nomi si possono leggere negli atti pubblicati dalla società amministrata da Pietro Ciucci. Un’operazione, lo ribadiamo, tutta legale, ma è quantomeno paradossale che “l’antidoto contro la mafia” di Salvini passi per il denaro che lo Stato dovrà versare a Carmina Antonia Mancuso, figlia del defunto Francesco Mancuso, classe 1929.
Boss indiscusso del Vibonese, don Ciccio viene descritto come “capo e vertice carismatico della cosca” omonima. Basta pensare che nel 1983, si candidò al Comune di Limbadi risultando il primo degli eletti. Ci riuscì da latitante e, se non fosse stato per un decreto del Presidente della Repubblica che sciolse il Comune, don Ciccio sarebbe diventato sindaco. Una bella soddisfazione per chi, come lui, faceva parte della “generazione degli 11”. Il numero sta a indicare i figli del capostipite del clan Giuseppe Mancuso. Nati tutti tra il 1927 e il 1954, l’ultimo è il boss Luigi Mancuso detto il “Supremo” che, detenuto al 41 bis, si ritrova una sfilza di nipoti e pronipoti che beneficeranno degli espropri per il Ponte. Oltre a Carmina Antonia Mancuso, infatti, tra gli altri c’è la figlia di quest’ultima, Pantalea Orfanò, ma anche Daniela Lemma a sua volta figlia di Rosaria Mancuso, sorella di Carmina e, quindi, pure lei nipote di don Ciccio.
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Condannato in primo grado a 30 anni, Luigi Mancuso è il principale imputato del processo “Rinascita”. Le motivazioni della sentenza devono essere ancora depositate. Le aspetta anche l’imprenditore Francesco Naso che (sempre in primo grado), ha rimediato una condanna a 18 anni per associazione mafiosa. Per la Dda di Catanzaro, allora guidata da Nicola Gratteri, con la sua azienda Naso avrebbe rifornito gratuitamente cemento e materiali edili al clan che in cambio gli avrebbe garantito “una posizione dominante” sul territorio. Anche Francesco Naso, stando al prospetto degli espropri, dovrebbe ricevere un indennizzo dallo Stato per i suoi 2.700 metri quadrati adibiti a pascoli e uliveti. Per altri 240 metri quadrati, invece, percepirà l’indennità da “occupazione temporanea”. La stessa che spetterà a Carmina Mancuso. Solo che la sua sarà molto più alta. La figlia di don Ciccio, infatti, oltre a essere proprietaria dei 2.200 metri quadrati che le saranno espropriati nel comune di Limbadi, ha ulteriori 21 mila metri quadrati nel comune di Nicotera per i quali, stando ai documenti della Stretto di Messina Spa, le sarà garantita l’indennità da occupazione temporanea ai sensi dell’articolo 49 del Testo unico sulle espropriazioni per pubblica utilità. Per legge, quindi, le sarà dovuta una cifra in denaro che ammonta “per ogni anno pari a un dodicesimo di quanto sarebbe dovuto nel caso di esproprio dell’area”. Nella migliore delle ipotesi, lo Stato pagherà i Mancuso fino al 2032 quando, stando alle promesse del ministro Salvini, dovrebbero concludersi i lavori del Ponte. Se ciò non dovesse avvenire, i proprietari continueranno a percepire l’indennità per un terreno che in alternativa, essendo in “stato di degrado e abbandono”, non produrrebbe un euro. Se, invece, una volta iniziati, i lavori non vedranno mai la fine, per i proprietari l’indennità avrà il sapore del vitalizio.
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