La disputa sulla Sardegna è finita come era previsto. Nessuna frattura irrimediabile del centrodestra, nessuna candidatura autonoma dell’uscente Solinas. Il quale ha ricevuto il colpo finale dall’inchiesta giudiziaria che lo riguarda, fin troppo tempestiva eppure non determinante ai fini politici. Per quanto i leghisti non vogliano sentirselo dire, il contrasto tra Salvini e la premier Meloni era destinato a concludersi come si è concluso: con il prevalere del candidato di Fratelli d’Italia, Truzzu. Il capo del Carroccio ha puntato i piedi, e non poteva fare altro, tuttavia la sua sconfitta era inevitabile. Ed è una disfatta che solo in parte riguarda i casi della Sardegna e il fastidio a Roma per le modeste prestazioni del presidente in carica.
In realtà c’è di più. Abbiamo assistito al primo “round” di una resa dei conti all’interno della maggioranza. Non è definitiva, ma è servita ad affermare il principio per cui uno (anzi, una) comanda e gli alleati devono accettare una forma di subordinazione in base ai rapporti di forza usciti dalle urne nel settembre del ’22.
La domanda è: perché proprio adesso?
Sembra logico pensare che l’occasione sia parsa per la prima volta propizia. Il governo è in carica da oltre un anno e dà l’impressione d’essersi nel complesso consolidato, nonostante i passi falsi. All’interno della coalizione, per quanto i nervi siano tesi, non c’è interesse a rovesciare il tavolo. Una crisi di governo porterebbe senza dubbio alle elezioni anticipate: non ci sono margini per chiamare un “tecnico” e Mattarella è il primo a saperlo. La presidente del Consiglio ha dunque in mano le chiavi della legislatura; lei, non Salvini o tantomeno Tajani.
Al tempo stesso siamo alla vigilia del solito passaggio elettorale di primavera. Cosa ne deriva? Da un lato le trattative per le candidature regionali e, dall’altro, il meccanismo proporzionale nel voto per l’Europa incoraggiano i chiarimenti fra alleati, chiamiamoli così. Di certo la premier è consapevole che il logoramento può essere innescato solo dall’interno della maggioranza. E il fatto che al momento non ci sia spazio per un altro esecutivo, aumenta la tentazione di sfidare Palazzo Chigi con la tipica guerriglia di chi non ha altri sbocchi.
Conclusione, la Meloni ha preso l’iniziativa prima di essere messa con le spalle al muro.
La contesa sulla Sardegna è diventata la prova generale del “premierato”, quando la coalizione — se ancora esisterà — sarà molto diversa da come l’abbiamo conosciuta in passato. La premier, certo, non è eletta direttamente dal popolo, secondo l’obiettivo finale del testo costituzionale che dovrebbe essere andare in votazione nei prossimi mesi: eppure si comporta come se lo fosse, soprattutto nei confronti dei suoi.
E di fronte a tanta spavalda determinazione, come agisce l’opposizione? In sostanza non ha un’iniziativa. Non ci sono tentativi di imporre l’agenda al Parlamento, secondo un’immagine abusata ma il cui significato è chiaro. Tranne che sulla proposta di introdurre il minimo salariale, il centrosinistra si limita a rispondere alla destra, come in un’eterna partita a ping-pong. Con il risultato che l’opposizione è lungi dall’ottenere un risultato apprezzabile.
Sarebbe meglio non dimenticare che la riforma costituzionale del “premierato”, quando vedrà la luce, sarà una novità di assoluto rilievo. Il centrosinistra avrebbe una proposta da contrapporre ed è il “cancellierato” sul modello tedesco. È innovativa e offre stabilità. Eppure ai vertici del Pd c’è quasi timore a costruire intorno a questa soluzione una campagna politica.
Certo, la battaglia si può perdere, specie quando i numeri sono assai sfavorevoli. Ma ci si impegna per lasciare un segno. Per non essere percepiti come dei meri conservatori insensibili al rinnovamento.