Curioso, a questo proposito, che la mappa dei “progetti pilota” in 9 Paesi africani annunciati dalla premier coincida largamente anche con quella del peso politico di Eni nel continente da cui ricava il 59% della sua produzione (dati 2021): Marocco, Tunisia, Algeria, Egitto (la gallina dalle uova d’oro del “cane a sei zampe”), Costa d’Avorio, Kenya, Congo e Mozambico. La sola Etiopia, tra i Paesi citati da Meloni (e destinataria di un progetto ambientale), è stata finora marginale – ma non assente – nel portafogli dell’azienda fondata da Enrico Mattei, oggi arruolato a sua insaputa da Palazzo Chigi.
Che il Piano Mattei, ma forse più correttamente il Piano Meloni-Descalzi, sia questa povera cosa a livello di contenuti l’ha in sostanza detto la stessa premier nel suo discorso di presentazione, ammettendo che in 15 mesi il suo governo ha predisposto solo una listarella di interventi, molti dei quali già in essere, che hanno pochissime speranze di essere una svolta per l’Africa.
Se non serve a fare quel che si dice, però, la mossa diplomatica e di marketing di Palazzo Chigi può servire a fare altro: occupare parte del peso politico e finanziario che la Francia sta perdendo nel suo ex cortile di casa del Sahel (Eni è il secondo produttore non africano del continente dopo la francese Total). Difficile che questo “lato B” delle intenzioni italiane possa trasformare il Piano Mattei in un modello a cui vorranno aderire gli altri Paesi europei o la stessa Ue: una disfida politico-economica non è una buona base per la condivisione.
L’Africa, d’altra parte, è quel luogo in cui la cooperazione e gli affari vanno mano nella mano con una certa tendenza dei secondi – ammesse ma non concesse le buone intenzioni – a prevalere sulla prima: il Piano Meloni-Descalzi non fa eccezione. Come ha spiegato l’amministratore delegato del colosso energetico al Financial Times un mese fa: “Noi non abbiamo energia e loro ce l’hanno. Noi abbiamo una grande industria e loro devono svilupparla… C’è una grossa complementarietà”. Dirlo più chiaramente di così sarebbe difficile.
Non di sola Eni ha però vissuto la gestazione del Piano per l’Africa. Un “contributo tecnico e strategico” all’elaborazione della strategia italiana l’ha dato, così scrive in una sua brochure, la fondazione RES4Africa, nata nel 2012 e sostenuta da grandi aziende pubbliche e private tra cui Enel, Terna, Intesa Sanpaolo, Elettricità Futura, lo studio legale Bonelli Erede e molte altre. RES4Africa, per dire, si occupa in Marocco, tra le altre cose, di “preparare le professionalità necessarie alla transizione energetica per favorire la creazione di posti di lavoro dignitosi”: progetto che nelle lista di Meloni diventa “un grande centro di eccellenza per la formazione professionale sul tema delle energie rinnovabili”. Il Paese nordafricano sta puntando parecchio sull’energia: Enel ha partecipato a investimenti sia nella produzione da rinnovabili che da gas. Il metano oggi è un bel problema per il Marocco, tagliato fuori dalle forniture algerine: ora ha annunciato che intende costruire un grande metanodotto dalla Nigeria, Paese in cui opera Eni, destinato ad arrivare in Europa. Un progetto concorrente di quello analogo proposto proprio da Algeri.
I progetti “fossili” – visto che i soldi arrivano in larga parte del Fondo per il clima – sono estranei al Piano presentato da Meloni, ma le reti infrastrutturali ne sono invece il cuore industriale. Meloni, ad esempio, ha citato l’interconnessione elettrica tra la Sicilia e la Tunisia (Elmed), ovvero la costruzione di un cavo sottomarino di 220 chilometri a cui lavorano Terna, la società pubblica responsabile della trasmissione dell’energia elettrica, e l’omologa tunisina Steg. Per la sua realizzazione la Banca mondiale ha stanziato a giugno 2023 quasi 270 milioni di dollari in favore della Tunisia e un finanziamento da 307 milioni è in arrivo anche dalla Commissione Ue senza che nessuno abbia mai citato Mattei.
Un’altra infrastruttura citata dalla premier è il “Corridoio H2 Sud”, che prevede la realizzazione di condotte per portare l’idrogeno dal Nord Africa all’Europa via Italia. Il Paese guida è ancora il Marocco: ha dichiarato di voler investire in questo ambito con l’appoggio di molti Paesi europei – tra cui l’Italia – attratti dalla possibilità di avere idrogeno “verde” a prezzi fino al 14% inferiori rispetto a quello domestico. Coinvolte sono l’italiana Snam, l’austriaca Tag, la slovacca Eustream, la ceca Net4Gas e la tedesca Oge: entro il 2030 vogliono creare una rete di idrogenodotti lunga 3.400 km, costituita per l’85% da tubi finora usati per il gas.
In Kenya, poi, c’è il progetto, citato da Meloni, “dedicato allo sviluppo della filiera dei biocarburanti”. Eni in quel Paese ha già un agri-hub con relativi impianti di raccolta e spremitura dei semi: l’olio estratto viene destinato alle bioraffinerie dell’azienda. È Eni stessa a raccontare che a ottobre 2022 il primo cargo di olio vegetale prodotto in Kenya ha lasciato il porto di Mombasa alla volta della bioraffineria di Gela e che vorrebbe estendere queste coltivazioni ad altri sette Paesi (Angola, Congo, Costa d’Avorio, Mozambico e Ruanda). Problema: parliamo di un’area del mondo in cui la malnutrizione non è proprio residuale, forse avrebbe più senso produrre per mangiare.
Un po’ meno diretto il collegamento tra Leonardo e il “progetto di monitoraggio satellitare sull’agricoltura” per l’Algeria, con cui pure il colosso della difesa ha fatto affari e stretto accordi di cooperazione in ambito militare. Leonardo con Thales e due società controllate (Telespazio e E-Geos) hanno già predisposto proprio un sistema di controllo satellitare dell’agricoltura – per il quale la società italiana partecipa con i propri sensori- è che potrebbe servire alla bisogna.
Non si sa se sono questi “gli interventi strategici di medio e lungo periodo” citati da Meloni, si spera che non si riferisse a quelli già in corso, a volte persino su impulso dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics) del ministero degli Esteri. Tipo il “centro agroalimentare che valorizzi le eccellenze e l’esportazione dei prodotti locali” in Mozambico, dove l’Aics sta già partecipando con 35 milioni di euro al “Centro Agro-Alimentare di Manica”, in una zona devastata da un ciclone nel 2019.
L’Agenzia si occupa anche di depurazione delle acque in mezzo mondo (in Etiopia, ad esempio, altro progetto in corso finito nel Piano), ma il programma citato da Meloni per la Tunisia somiglia assai a quello detto “Tresor” per il trattamento di fanghi e acque reflue già avviato da Eni nel 2020, come pure la “riqualificazione infrastrutturale delle scuole”, già messa in moto dall’azienda di Descalzi. E ancora: il rafforzamento del sistema sanitario in Costa d’Avorio (“accessibilità e qualità dei servizi primari materno-infantili”) segue il Cane a sei zampe, che nel Paese produce petrolio, gas e oli per la bioraffinazione e investe in “salute, con programmi di formazione ai medici e la distribuzione di dispositivi sanitari”. Tutto bene, per carità, ma per questa povera cosa c’era bisogno di perdere 15 mesi e poi andare in duecento a Palazzo Madama?