l’intervista
Matteo Lancini
andrea siravo
«Sin dall’inizio sembrava non reggere il racconto del ragazzo. Fortunatamente stragi così gravi capitano raramente. Anche in casi in cui non è stato portato a compimento il progetto omicidiario sappiamo che queste vicende hanno a che fare con ciò che accade all’interno della famiglia. Ognuna di esse ha delle caratteristiche uniche e specifiche che difficilmente si possono generalizzare». L’auspicio di Matteo Lancini, psicologo, psicoterapeuta e presidente della Fondazione “Minotauro” di Milano, è che la strage famigliare di Paderno Dugnano diventi un’occasione di riflessione più ampia sul tema del disagio giovanile.
Lancini, allo stato non sembra esserci un movente chiaro dietro la scelta del ragazzo di annientare all’improvviso la propria famiglia. Come si spiega tanta violenza?
«Sempre più spesso i fatti di cronaca e il lavoro quotidiano che facciamo anche al centro Minotauro ci restituiscono un quadro di ragazzi che faticano enormemente a esprimere gli aspetti emotivi, i conflitti e i sentimenti più disturbanti relativi al proprio contesto familiare e amicale in qualche cosa che diventi simbolo, parola e condivisione. La relazione viene annullata e si ricorre al gesto disperato».
Dai primi riscontri sembra che il 17enne non avesse problemi di natura psichica o di tossicodipendenza. Chi lo conosceva lo ha descritto “l’ultima persona dalla quale ti aspetteresti una cosa del genere.
«Bisogna attendere le perizie e tutti gli accertamenti della procura e del tribunale minorile. Senza dubbio ci troviamo davanti a un disagio e un dolore mentale che, però, non necessariamente possiamo subito attribuire a una psicopatologia».
L’esercizio della violenza, come in questa tragedia, è stato commesso attraverso un coltello. Non un caso isolato come dimostrano i recenti dati.
«L’uso da armi da taglio tra i giovani è sempre più diffuso. Anche in età anticipata e tra ragazzi provenienti da contesti socio-economici non svantaggiati, come nella vicenda di specie, che regolano le vicende emotive attraverso l’utilizzo di quest’arma. Il ragazzo ha agito con gesto particolarmente violento e ripetuto. Prima contro un bambino di 12 anni e poi contro una madre e un padre».
Nella prima chiamata al 112 il 17enne ha detto di aver ucciso solo il padre incolpando lui dell’omicidio della madre e del fratello più piccolo. Quale può essere il motivo?
«L’essere umano, quando è di fronte a esperienze anche meno drammatiche e devastanti di questa, reagisce attraverso dei meccanismi che sono di difese emotive in cui ognuno prende il proprio percorso. Sono delle difese difficili da comprendere e a cui attribuire un significato. Posso solo dire che spesso non sono premeditate e strutturate».
Quando accadono queste vicende così tragiche ci si interroga, soprattutto quando tra genitori, se ci sia un modo per cogliere un disagio prima che sia troppo tardi. Esistono dei segnali premonitori?
«Tutti lo cercano ex post in tragedie così inimmaginabili, come quando un adolescente si suicida. L’unica risposta, che spesso non piace agli adulti, ma che possiamo trarre da queste vicende è che non dobbiamo mai smettere di dare voce alle emozioni anche più disturbanti che hanno i ragazzi. Oggi abbiamo più che mai la necessità di partire da questa terribile vicenda per parlarne e fare in modo che i propri figli esprimano il proprio pensiero sul gesto e anche lasciarli dire delle cose che ci possano disturbare e non vorremmo sentire».
Quindi censurare e far finta di nulla non è l’approccio corretto?
«Dobbiamo trasformare questa terribile vicenda in un’occasione di sviluppo, crescita e possibilità di mettere in parola. Quando si consente a un adolescente di verbalizzare il proprio stato d’animo non vuol dire che gli si dà ragione solo perché lo si ascolta. Vuol dire gli si dà legittimità di parola e di pensiero, qualunque esso sia. Ed è meglio qualsiasi parola, anche la più disturbante, che un gesto violento dal quale non si torna più indietro. Più che mai oggi, in questa grande crisi valoriale, c’è bisogno di puntare tutto sulla relazione, ma una relazione capace davvero di identificarsi con l’altro».
In questa prospettiva sembra che alle famiglie sia lasciata tutta la responsabilità. Non servirebbe un aiuto anche dal sistema scolastico?
«Si parla da anni di una psicologia strutturata a scuola. Serve una figura di psicologo di comunità e di integrazione che collabora alla creazione di una comunità di ascolto che comprenda anche genitori e insegnanti. Tuttavia, il problema è che si può fare di più, solo se ci sono degli investimenti. La verità che, di fatto, c’è un disinteresse nella salute mentale di sistemi scolastici in generale ma soprattutto nei giovani. Ci sarebbe moltissimo da fare, però è un discorso politico».