l’analisi
Domenico Quirico
In un antico libro russo si legge che c’è tempo per tutto: per gettare le pietre e per raccoglierle. La guerra ha poco tempo e molte forze. I carri armati rumoreggiano nella steppa di Kursk e un’erba triste ricopre i villaggi abbandonati. Dove i combattimenti infuriano le case hanno le occhiaie vuote e i fianchi piagati. Erano, in fondo, delle buone vecchie case russe, ma i proprietari le hanno abbandonate precipitosamente e ora imputridiscono come cadaveri. Cittadine muoiono lentamente. Si vive nei ricoveri tra strepiti e difficoltà di ogni sorta e si parla di quando “le difficoltà” saranno superate. I russi delle zone invase o in pericolo di attacco hanno imparato a gettare le pietre e a evitare le pietre e ciascuno salva ciò che più gli è caro.
Tre settimane fa Vladimir Putin pensava di portare a spasso, nella Sua Guerra fatta di paradisi, purgatori e inferni senza numero, un’altra giornata normale: l’occhio famelico, i sensi sempre in allarme, un Belikov cecoviano che ha messo fruttuosamente al servizio dell’istinto di sopravvivenza l’innato ossequio al potere e il fanatismo per l’ordine. Ma adesso, dopo Kursk?
Tre settimane fa, attorno a lui, la vita camminava e i russi credevano, discutevano, simulavano, protestavano (pochi!). E morivano: ma laggiù, in Ucraina. Alcuni volevano arricchirsi e essere primi, come sempre, altri badavano a salvare la pelle. Non c’era nessuna novità, nessuno sbalzo, tutto fluiva naturalmente, ogni cosa era legata da un filo, invisibile ma vivo.
I cortigiani e i generali venivano da lui con il rapporto, qualche avanzata qualche ritirata, l’economia di guerra ronzava… Sentiva che avevano paura di lui, come prima, lo capiva dalle vene del collo che si gonfiavano e dalle piccole gocce di sudore che si raccoglievano agli angoli della bocca quando dovevano sillabare cattive notizie. Bene: se tremavano significava che tutto era sotto controllo. Ma adesso tre settimane dopo Kursk? La Russia non comincia a sembrargli piena di misteriosi rumori e di dubbi? Così si distruggono le enormi piovre, lontano, sotto le acque profonde. Così iniziano il malcontento le rivolte, il caos. Le rivoluzioni.
Nei ventiquattro anni di incantesimo al Cremlino man mano che si imbeveva di potere, ha ricavato una solida pedagogia. Sedurre… seduzione… il seduttore Putin. C’è sempre dietro il sedurre anche in politica uno sfondo di bugia e di illusione, un far cadere in falsità. Dal Gorgia di Platone è una faccenda di simulazione, corruzione, usurpazione. Il seduttore Putin: nella sua mediocrità referendario ideologico di una condizione, non solo russa, europea, contesa nel dilemma tra bugie e realtà, onestà e inganno, parole e fatti, viltà praticata e obbligo morale disatteso. Di questo è sopravvissuto sapendo che i suoi interlocutori, i democratici d’occidente, erano troppo vili o bugiardi per risolvere il dilemma e che la sua utilità, anche di autocrate, valeva bene la spesa di molti tappeti rossi, strette di mano, inchini e l’ingoiare i mille rospi dell’abiura dei celebrati diritti umani. Che amano la lingua di granito del compromesso e hanno l’abitudine di apprezzare, sottovoce per carità!, gli utili sbirri di professione.
Al giudizio finale, che prima o poi sapeva inevitabile, si è sottratto il 24 febbraio scendendo a bruciare nel fuoco rapido della guerra le ambiguità antiche e la coscienza nel passare del tempo di un futuro incerto. Ma adesso, dopo Kursk? Adesso che la guerra è, antropologicamente, anche in Russia non ci sono in lui dubbi che iniziano a sbucare, a farsi strada da sé prima timidi e poi veementi?
Non ho mai creduto ai racconti che in due anni hanno fatto scorrere tanta saliva propagandistica in Occidente di un Putin disperato, chiuso nel bunker del Cremlino, ossessionato dalla sconfitta incombente e dai demoni della punizione e del tradimento domestico. Ma oggi dopo Kursk qualcosa è cambiato, di profondo, al di là della irrilevanza militare della incursione ucraina. Un sistema politico, tirannide o democrazia, esiste solo se risponde in maniera adeguata a ciò che lo mette in pericolo. Finché riesce a reagire e ad annientare ciò che punta alla sua fine sopravvive. Quando dimostra di non avere più i mezzi per rispondere, subito, drasticamente, muore. La Russia putiniana è forse arrivata a questo dilemma senza vie di uscita.
Il cuore del putinismo è appunto la Potenza, la promessa e la garanzia di Potenza. Tutto si gioca a partire da lì. Non la situazione economica, i diritti, la censura, i dissidenti. La Potenza tiene! Il potere è legato al suo Verbo feticcio. Quella che ha promesso ventiquattro anni fa quando da quasi nessuno è diventato lo zar delle macerie russe.
E dunque, alla fine, che cosa è questa così agognata Potenza? È la condizione di chi fa paura, di chi può far del male così a fondo e impunemente che il mondo intero ne sente il clamore e il tremore. Napoleone, l’imperialismo ipocrita inglese e poi americano, l’Urss e Stalin: tutti potenti non per l’Ottantanove, la democrazia, il comunismo. Perché hanno fatto e fanno paura. Pezzo per pezzo, lentamente, Putin ha convinto i russi e anche l’occidente di essere diventato potente, di poter far male. E non solo per le atomiche.
Ma se dopo Kursk questa convinzione vacilla? Se il Verbo non tiene più, si svela come Verbo di impotenza che non scongiura più nulla, i bombardamenti l’occupazione del suolo della Santa Russia Senza Peccati i profughi gli sfollati, che la fanno tragicamente simile alla irrilevante, scalcinata Ucraina.
Se il Grande Putin assomiglia, nei guai, al microscopico buffonesco Zelensky, allora non diventa la supposta Potenza un Verbo di colpa e quasi di crimine? Non è lui responsabile di una invasione come lo fu Stalin? Cosa è diventata, da giustificazione di un assoluto Potere, se non una terribile trappola in cui è incappato Putin? Siamo al punto in cui la legge della Potenza sbandierata, pubblicizzata, la potenza delle sfilate e delle guerre periferiche, si capovolge nel suo contrario, diventa sfacelo.