Se Mozart è stato il nume tutelare all’origine del successo del Festival di Aix en Provence, il recupero del repertorio antico si è presto affermato come un cardine della proposta nella rassegna nata nel 1948 e oggi diretta da Pierre Audi. Le possibilità molteplici di maneggiare e ridare vita ai codici e alla fertile complessità del teatro barocco di Monteverdi, Handel e Rameau, compositori centrali nella storia del festival francese, sono indagate in tre spettacoli, impostato ciascuno secondo una specifica visione registica e musicale: un universo creativo i cui presupposti intellettuali si sono sicuramente modificati dai tempi dei trionfi di Pizzi, Caballè, Berganza, Lavelli, Jessye Norman, configurando un paradigma in cui direttore e regista, con drammaturgo, scenografo e costumista annessi, sono oggi poli di riferimento indefettibile dello spettacolo, con gli interpreti relegati a tratti in secondo piano.

AL GRAND THÉÂTRE de Provence Dmitri Cherniakov concatena in una poderosa messa in scena le due Ifigenie di Gluck. Incarcerato nella silhouette al led di una dimora borghese con bovindi e alcove, il gesto aulico del dramma riformato gluckiano si trasforma in feroce scontro fra individui e generazioni che dal teatro borghese dell’Aulide si amplifica nell’esilio della Tauride teatro di guerra ucraino. Svaniscono così le ampie campiture del teatro barocco ma si accentua l’urgenza dei rapporti, dominati dal potere e corrosi dalla menzogna.

Corinne Winters è una Ifigenia che da mite vittima di un re-padre insensibile, Russel Brown, finge perfino di credere alle ipocrite parole di salvezza di Achille, Alisdair Kent. In Tauride una nuova Ifigenia, la chioma grigia anzitempo come le mogli dei soldati al fronte, si staglia matura e severa, mentre tra violenza e amore deflagra il cameratismo militare di Oreste e Pilade, Florian Sempey e Stanislas de Berbeyrac. Sono loro a rubare la scena insieme alla Clitemmestra nevrotica di Veronique Gens, figura cechoviana fremente, impeccabile per voce e stile in Aulide e ridotta a magnetico fantasma di madre fassbinderiana, destinata a rivivere cento volte negli incubi di Oreste, il rossetto passato sulle labbra davanti allo specchio prima che il figlio la uccida; intanto Ifigenia si affaccia a un oblò con una sigaretta, in attesa come Maria Braun.

Precisa nella concertazione ma timida, Emmanuelle Haïm ritrova corpo e passione insieme al Concert d’Astrée nelle più drammatiche scene d’assieme della Tauride, passaggi migliori anche della regia per la felice gestione delle masse. Non è un vero recupero dall’antico Samson di Rameau, quanto una creazione nuova del regista Claus Guth e soprattutto del direttore Raphäel Pichon, che muovendo dalla partitura perduta di Rameau compongono sulla scena dell’Archêveché un mosaico fascinoso per qualità, concatenazioni armoniche e drammaturgia musicale, spaziando fra cori, ariosi duetti e danze da Dardanus a Zoroastre da Les Paladins a Castor et Pollux, da Naïs a Les Indes Galantes a Les Surprises de l’amour.Un universo creativo i cui presupposti intellettuali si sono sicuramente modificati dai tempi dei trionfi di Pizzi, Caballè, Berganza, Lavelli, Jessye Norman

TRALASCIANDO il superstite libretto di Voltaire, Guth ricompone a ritroso la vicenda biblica nella grandiosa sala di palazzo ottocentesco bombardato – scene di Etienne Pluss – che grazie alla luci di Bertrand Couderc si trasforma a ogni episodio, primo passo l’infanzia di Sansone. Un susseguirsi travolgente di scene la cui precisa finalità drammatica resta però poco leggibile, né viene chiarita dalla narrazione accorata quanto ininfluente della madre, per cui si è disturbata addirittura Andrèa Ferreol, e dalle reiterate citazioni bibliche. Nessun rinnovamento del teatro barocco ma un pastiche ben congegnato di cui restano alcuni flash – troppe e ripetitive le scene al rallentatore – e la perturbante scena di seduzione e abuso di Dalila, Jacquelin Strucker, che spicca insieme al Samson pressoché infaticabile di Jarret Ott e la Timna di Lea Desandre. Su tutto la musica di Rameau restituita con fuoco, varietà e finezza di accenti da Pichon con gli strepitosi musicisti e coristi dell’ensemble Pygmalion.

IL MIGLIOR esito complessivo tuttavia si rivela un po’ a sorpresa al teatrino di Jeux de Paume, con un Ritorno di Ulisse in patria restituito nelle proporzioni mirabili di un classico contemporaneo. Florido, carnale, aderente a ogni piega del recitar cantando monteverdiano ma con l’incedere di un thriller, Leonardo Garcia Alarçon guida cast e musicisti perché vibrino.all’unisono nelle geometrie taglienti della regia di Pierre Audi. Molto del merito va a Urs Schönenbaum che con una scena di tre pareti in metallo e le sue poetiche luci inventa le mura di Itaca, la notte stellata, le stanze di Penelope, la sala del trono e l’iperuranio degli dei, in cui Audi cita divertito sé stesso e il suo Ring, a partire dalla Minevra-Bruhhnilde di Mariana Flores.
Vanno almeno citati la Penelope altera, kore drappeggiata alla Burne-Jones di Deepa Jonny, la Melanto sensuale di Giuseppina Bridelli, l’Ulisse muscolare di John Beancy, il protervo Anfinomo di Alex Rosen e Marcel Beekman, Iro prima grottesco poi testimone disperato della mattanza dei proci.