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Nel mezzo di una commedia di Plauto unica nel suo genere, il cartaginese Annone entra in scena nella città di Calidone in cerca delle sue figlie rapite quando erano in fasce. ‘Chi è quell’uccello che arriva sventolando la tunica?’, lo prende in giro lo schiavo Milfione, ‘avrà dei servi senza dita, visto che si sono infilati degli anelli nelle orecchie’. Nella commedia, i Cartaginesi sono derisi per costume e performatività, non per fisionomia. Dell’aspetto fisico di Annone si tace. Ma ciò non vuol dire che la commedia non faccia leva su stereotipizzazioni e generalizzazioni sull’intera ‘razza’. Già in apertura, Plauto gioca sull’aspettativa del pubblico di un personaggio infido, lascivo, incestuoso, un dissimulatore nel sangue: ‘sa tutte le lingue ma finge di non sapere’, ci avverte nel prologo, ‘è proprio un Cartaginese. Dobbiamo aggiungere altro?’
Il Cartaginesino (Poenulus, probabilmente un insulto etnico, unito a un diminutivo dispregiativo) pone delle domande cruciali per lettrici e lettori moderni. Possiamo parlare di ‘razza’ cartaginese in prospettiva romana? E di ‘razzismo’ nei confronti di Annone? La risposta canonica è no. Protagonista della commedia è Agorastocle, anch’egli cartaginese, ma rapito da Cartagine in tenera età e cresciuto da uomo libero a Calidone. Il fatto che Agorastocle non presenti gli stessi tratti di Annone pur essendo cartaginese, significherebbe che i Romani non avevano una concezione ereditaria di ‘razza’, e che la loro visione non può dunque essere catalogata come ‘razzista’.
Tuttavia, negli studi razziali l’ereditarietà dei tratti caratteristici è solo una di tante posizioni razziste, denominata ‘essenzialismo razziale’, così come la fisionomia è solo una delle tante caratteristiche (culturali, linguistiche, geografiche, storiche, religiose) su cui si basa la cosiddetta ‘formazione razziale’. Per fare un esempio contemporaneo proprio delle società occidentali, la richiesta di integrazione culturale di gruppi minoritari o ‘razzializzati’ da gruppi dominanti, che ammette possibilità di assimilazione (pensiamo ai musulmani nelle società laiche o cristiane), si basa su presupposti di superiorità culturale e razziale che fomentano sia episodi razzisti sia l’esistenza di un razzismo strutturale nei confronti dei suddetti gruppi.
Qualunque sia la nostra posizione rispetto al Cartaginesino, non c’è dubbio che questi siano argomenti fondamentali da trattare nello studio del mondo antico, e particolarmente urgenti in classi liceali e universitarie, in quanto invitano studentesse e studenti a riflettere contemporaneamente sul mondo antico e sulla società odierna. Eppure, una regola non scritta dei dipartimenti di Lettere classiche italiani (e non solo) è che i termini ‘razza’ e ‘razzismo’ debbano rimanere alla porta. Si parla tutt’al più di etnia/etnicità, identità, o del nebuloso concetto di ‘altro’; di ‘pregiudizio etnico’, ‘xenofobia’, ‘determinismo ambientale’: mai di ‘razzismo’.
Storicamente, tale evasione ha senso. Se per ‘razza’ intendiamo una classificazione di gruppi umani in categorie biologiche stabilite a seconda delle differenze percepibili all’occhio, parliamo in effetti di un fenomeno riconducibile, al più presto, al basso medioevo, e che in ogni caso diventa il concetto moderno di ‘razza’ solo a seguito dell’esperienza coloniale. Gli antichi avevano idee piuttosto vaghe di differenziazioni tra ‘etnie’, difficilmente riconducibili a un pensiero unico, e ad ogni buon conto erano le caratteristiche ambientali di determinati luoghi, e non ipotetiche genealogie, a diversificare i popoli. I Cartaginesi sono infidi, ad esempio, perché la vicinanza al mare corrompe, e li ha resi mercanti.
Provate però a chiedere a una classe liceale o universitaria di darvi una definizione di ‘razza’, e scoprirete probabilmente una varietà di interpretazioni. Le razze non esistono, vi diranno alcuni, esiste solo la razza umana; altri obietteranno che il concetto di razza esiste nella misura in cui il razzismo esiste, sarebbe a dire a livello sociale e non biologico. E se il razzismo come noi lo conosciamo (la convinzione dell’inferiorità, e della minore umanità, di un gruppo umano sulla base di caratteristiche variabili) esiste nei testi antichi (in autori che vanno da Aristotele e Ippocrate a Giovenale, Tacito o Rutilio Namaziano), non possiamo forse considerare la possibilità di ragionare in termini di razza anche nei dipartimenti di scienze dell’antichità?
Già da vari anni nel mondo anglosassone, specialmente in contesto statunitense, la disciplina degli studi classici è accusata di aver insabbiato un concetto scomodo per la sua stessa storia. Filosofie e storie della formazione razziale vengono mobilitate non solo a supporto dell’interpretazione delle fonti antiche, ma soprattutto in un’analisi introspettiva sulla storia e formazione degli studi classici. Spesso la disciplina ha fatto leva su concetti razziali per esaltare la cultura greco-romana come incunabolo dell’Europa moderna e contemporanea, e si è prestata a supportare strutture razziste di pensiero a giustificazione di schiavitù e genocidi perpetrati in contesti coloniali e totalitari. Il fatto che autori greco-romani continuino a essere invocati a supporto di idee razziste da gruppi di estrema destra in tutto il mondo occidentale sarebbe da vedere non come un’interpretazione aberrante dei nostri studi, ma come una progressione naturale della loro storia.
Sbaglieremmo a pensare che la richiesta di affrontare seriamente il passato razzista della disciplina degli studi sia effetto della cosiddetta cancel culture: questi dibattiti sono in giro già da un pezzo. Nel 1987 uno studioso di storia della Cina contemporanea di nome Martin Bernal pubblicò il primo di una serie di volumi provocatoriamente intitolati Atena nera. Punto fondamentale dell’opera non era solo illuminare la misura in cui la cultura greca (e di riflesso europea) sia figlia diretta di culture semitiche ed egizie, né di determinare se la cultura egizia fosse a sua volta una cultura ‘nera’ (nel pieno anacronismo di un termine che non avrebbe avuto senso in antichità). Come indica il sottotitolo del primo volume, La fabbricazione dell’antica Grecia 1785-1985, il messaggio impellente di questo outsider agli studi classici fu proprio una richiesta all’accademia classica di affrontare la misura in cui antisemitismo, colonialismo e razzismo nei confronti delle società africane avessero influenzato la nostra disciplina, specialmente nel XIX secolo, e in modo tale da continuare a esercitare una distorsione sulle nostre analisi delle civiltà antiche.
Il caso principale preso di mira da Bernal riguardava l’ipotesi, formulata nel XIX secolo, dell’arrivo di una civiltà nord-europea ‘ariana’ che avrebbe ‘conquistato’ i Greci linguisticamente e culturalmente, spodestando le preesistenti influenze fenicio-semitiche ed egizie, e rendendoli dunque culla della civiltà europea moderna. Questo modello, definito da Bernal ‘ariano’, avrebbe rimpiazzato un modello ‘antico’, sostenuto dai Greci in età classica ed ellenistica, secondo cui la cultura greca sarebbe invece il risultato di una ‘colonizzazione’ egizia e fenicia, e di una continua influenza da parte delle culture del vicino Oriente. Va detto che Bernal non reclamava un ritorno a tale modello antico; proponeva piuttosto un ‘modello antico aggiornato’ che accettava l’ipotesi (predatata) dell’arrivo nel Peloponneso di popoli di origine indoeuropea. Punto fondamentale era però contestualizzare la creazione di tale modello ariano, proposto da studiosi per i quali, scrive Bernal, «era semplicemente intollerabile che la Grecia, vista non solo come l’epitome dell’Europa, ma anche come la sua pura infanzia, fosse stata il risultato della mescolanza di nativi Europei e di colonizzatori Africani e Semitici».
Ma ci sono altri casi, non considerati da Bernal, in cui l’influsso di razzismo e antisemitismo si fanno sentire nelle nostre concettualizzazioni dell’antichità. Un caso celebre è quello dell’Africitas, un tipo di latino considerato ‘dialettale’ e proprio di scrittori africani quali Apuleio, Frontone, Tertulliano o Sant’Agostino. Il concetto stesso di Africitas o tumor Africus (‘esuberanza africana’) fu ideato dal filologo rinascimentale Juan Luis Vives e concettualizzato propriamente nel corso del XIX secolo, fino alla sua prima confutazione da parte di Eduard Norden verso la fine dello stesso. Come documentato recentemente dalla studiosa Silvia Mattiacci, pregiudizi razziali hanno influenzato non poco la teorizzazione di uno stile la cui esuberanza lessicale e stilistica sarebbe stata un riflesso dell’esuberanza caratteriale propria di questi autori ‘semitici’ e ‘orientali’.
Da classicista, trovo personalmente bizzarro che la legittima richiesta di tirar fuori la testa dalla sabbia e far luce su aspetti fondamentali della storia della nostra disciplina venga identificata come cancel culture. Cancellato sarebbe ad esempio il filologo Basil Gildersleeve, fondatore dell’«American Journal of Philology», il cui nome dal 2019 non apre più la prima pagina della rivista accademica da lui fondata. Il nome però, a dirla tutta, è ancora lì, ma non senza cognizione di causa. La prima pagina della rivista include ancora il ricordo di un uomo che fu indubbiamente ‘uno dei classicisti più importanti del suo tempo’, ma anche un vocale sostenitore delle leggi Jim Crow e dell’agenda degli Stati Confederati. In una disciplina così legata all’importanza del contesto storico, come possono tali obiezioni alla contestualizzazione indicare nient’altro che una coda di paglia?