Viktor Orbán ora sa – e dice – che ci saranno mille altre occasioni nelle quali minacciare di bloccare tutta Europa. Dopo la festa, a Bruxelles subentra il mal di testa. Giovedì un accordo con il premier ungherese aveva consentito ai leader europei di dare il via libera ai negoziati per l’ingresso di Ucraina e Moldavia in Ue. «Accordo storico!», avevano esultato all’unisono i protagonisti, dal cancelliere tedesco al presidente francese, e ovviamente la premier italiana che si è attribuita il ruolo di pontiere. Poi nella notte di nuovo uno stop da Orbán, stavolta sul bilancio comune, aiuti a Kiev compresi. E il giorno dopo – cioè questo venerdì, in conclusione di vertice – il brusco ritorno alla realtà, alle conseguenze delle concessioni al despota, e ai capogiri che ne derivano.
Dai microfoni di Radio Kossuth, sulle cui frequenze ogni venerdì mattina il premier ungherese detta incontrastato la sua messa, è arrivato l’ennesimo ricatto: «Soltanto sull’ingresso dell’Ucraina in Ue, mi restano come minimo almeno altre 75 occasioni per bloccare tutto, come abbiamo convenuto con gli altri leader». Orbán deve rassicurare la propria opinione pubblica, e barcamenarsi con il Cremlino. Ma c’è un messaggio che va oltre propaganda e retorica: ora che il despota ha avuto l’ennesima riprova che l’Ue sgancia, continuerà a batter cassa. L’accordo pattuito – con il contributo di Meloni – tra l’Ue e il premier ungherese ha già tre gravi contraccolpi.
I TRE CONTRACCOLPI
Il primo è che il riesame del quadro finanziario pluriennale – utile anche al governo italiano, tra reindirizzo dei fondi di coesione e stanziamenti per i patti migratori – è bloccato: si torna a parlarne in un ulteriore Consiglio ad hoc, a inizio 2024; inizialmente si parlava di gennaio, poi sia Charles Michel che Emmanuel Macron hanno messo in conto che si arrivi a febbraio.
Il secondo grave contraccolpo è che sappiamo già quanto costerà sbloccarlo: altri fondi europei sbloccati per l’autocrate ungherese, e pure l’eventualità che i fondi per Kiev vengano gestiti a livello di accordo intergovernativo con chi ci sta (cioè tutti tranne lui).
Il terzo effetto tutt’altro che secondario è una ulteriore torsione autoritaria, che Orbán ha esibito non appena ha concluso il suo patto coi leader europei. La legge bavaglio che il suo partito, Fidesz, aveva portato avanti in parallelo ai negoziati con Bruxelles – e che incredibilmente non ha sortito reazioni dall’Ue – verrà ora esplicitamente rivolta contro i pochi media liberi del paese, che già alla vigilia del Consiglio europeo si erano allertati e che dopo il vertice si ritrovano bersagliati dal premier. E che dire degli insegnanti ungheresi, i cui stipendi vengono tenuti in ostaggio dal premier dei ricatti?
L’allargamento dell’Ue viene messo a battesimo sotto il presupposto fragile del deterioramento democratico interno, e come se non bastasse anche sul dossier affrontato questo venerdì in conclusione di vertice – cioè la guerra in Medio Oriente – i leader si mostrano su posizioni talmente diverse fra loro, che «si è preferito ribadire le conclusioni dello scorso Consiglio. Se le avessimo rinnovate, alcune divergenze avrebbero reso il lavoro difficile» (Meloni dixit).
La distanza è tra chi, come i premier spagnolo e belga che in coppia si erano recati a Gaza, chiede il cessate il fuoco – «la situazione è peggiorata in modo drammatico rispetto all’ultimo Consiglio europeo e l’Ue deve giocare un ruolo serio!», per dirla con il belga Alexander De Croo – e chi invece (come Orbán stesso) si schiera con Israele al punto da non voler mettere bocca sulla strage di civili in corso. Queste divisioni interne europee appaiono del resto platealmente quando gli stati votano in sede Onu.
QUANTO CI COSTA
Nella cosiddetta nego box (la “scatola negoziale”) che giovedì notte ha incassato il via libera di tutti tranne che dell’Ungheria, ci sono almeno due capitoli che il governo italiano riteneva cruciali. Uno è Step, cioè la possibilità di reindirizzare i fondi di coesione, nati per ridurre i divari, anche per grandi imprese, e anche del Nord. Costituisce per Chigi un premio di consolazione, dai tempi del via libera agli aiuti di stato che favoriva Parigi e Berlino ma non Roma; all’epoca Meloni ventilava un «fondo sovrano», ma fondi nuovi non sono mai arrivati. La nego box prevede però di rimaneggiare quelli ancora non utilizzati.
Nella bozza di revisione di bilancio figurano anche 9,6 miliardi per “migrazione e dimensione esterna”. Meloni lo considera un successo («a un certo punto non c’era quasi niente, ora quasi dieci miliardi») ma è chiaro che anche questo è un contentino di propaganda, in confronto alla messa ai margini dell’Italia sul dossier del patto di stabilità. Ad ogni modo tutto questo prospetto finisce congelato in attesa di sbloccare l’Ungheria, il che mostra che il ruolo di pontiere di Meloni finisce per mettere persino l’Italia in attesa di un autocrate. «Un Consiglio in chiaroscuro», conclude non a caso la premier.
Come mai il presidente del Consiglio europeo, così come i leader, sono tuttavia fiduciosi che a inizio 2024 Orbán sblocchi anche la revisione di bilancio? Semplice, perché è già stata concordata. Il premier ungherese però nelle settimane di intermezzo vuol vedere altri fondi Ue sbloccati. Quando il cancelliere tedesco – uno degli artefici dell’accordo con l’autocrate – dice che il Natale porterà consiglio, intende che Babbo Natale von der Leyen penserà a Orbán.