Stone & DeGuire Contemporary Art Award winners
6 Aprile 2023Lascia gli studi un ragazzo su 6 al Sud il buco nero della scuola
6 Aprile 2023la sfida al tempo
di Tommaso Labate
Mentre amici e avversari pregano perché superi la crisi anche questa volta, si può aggiornare il calcolo delle parti del corpo di Berlusconi che hanno ricacciato i malanni.
ROMA A desso che amici e avversari pregano perché venga fuori dalla terapia intensiva del San Raffaele col ghigno classico di chi l’ha scampata bella ancora una volta, regalando nuova gloria alla vecchia teoria del medico Umberto Scapagnini sulla straordinarietà di un sistema neuro-immunitario che lo renderebbe «tecnicamente immortale», adesso insomma si può aggiornare il calcolo delle parti del corpo di Silvio Berlusconi che hanno finora ricacciato all’indietro i colpi proibiti del malanno. Una guerra politica, più che un affare di salute: nella storia italiana a cavallo tra i due millenni, insieme forse al solo Marco Pannella — che però si è sottoposto a un numero imprecisato di scioperi della fame, oltre che all’auto-somministrazione di un’ottantina di sigarette al giorno fino all’ultimo giorno — Silvio Berlusconi ha assistito da vivo a quello che altre personalità di primissimo piano della politica del Dopoguerra, da Aldo Moro a Enrico Berlinguer, hanno avuto solo da morti. E cioè al fenomeno di un corpo che si trasforma in strumento di lotta politica, motore di consenso, inchiostro per pagine di giornali e per libri di storia, stampa su magliette e spillette, materiale da convegno, icona impermeabile all’incedere del tempo.
Partendo dai piedi e finendo alla testa, il calcolo va per approssimazione: la prostata aggredita da un tumore nel 1997, le vie urinarie interessate da un’insidiosa infezione all’alba dell’elezione del presidente della Repubblica nel 2022, l’intestino occluso nel 2019, un frammento di menisco asportato nel 2006 ad Aversa, un femore contuso (inizialmente si pensava rotto) nel 2019 a Zagabria, un ginocchio maltrattato dall’artrosi nel 2014, il cuore a cui è stato impiantato un pacemaker nel 2006 e a cui è stata sostituita una valvola aortica dieci anni dopo perché «stavo per morire», i polmoni attaccati da un Covid «con una carica virale mai vista», gli zigomi e la mandibola colpiti dalla statuetta del Duomo lanciatagli contro da Massimo Tartaglia nel 2009, gli occhi tumefatti dall’uveite nel 2013.
Il corpo martoriato, che per altri sarebbe diventato quantomeno elemento di serena riflessione in vista di un onorevole ritiro dal proscenio, da un certo punto in poi per Berlusconi è diventato l’elemento di una nuova narrazione. L’uomo che con Fininvest rompeva il monopolio della Rai, che col Milan batteva il Real Madrid, che con Forza Italia sconfiggeva «i comunisti», s’è trasformato col tempo nel corpo ferito sì ma mai domo. La prima volta che si dà del vecchietto è a 77 anni compiuti, la notte di San Silvestro del 2013, in un attimo di cedimento a una malinconia alimentata dalla condanna in via definitiva e dalla conseguente decadenza da senatore: «Sono un vecchietto ma non posso permettermi di finire la mia avventura umana, imprenditoriale, da uomo di sport e da uomo di Stato come un perdente». Quattro anni dopo, l’aggettivo «vecchietto» se l’è già rimangiato. Durante un viaggio in Molise per le Regionali del 2018 si ferma a discutere con alcuni anziani a Bagnoli del Trigno, provincia di Campobasso. «Io non sono riuscito a invecchiare perché ho sempre lavorato!», dice ad alta voce. Un pastore si fa avanti e gli fa: «Eh ma la vecchiaia arriva…». E il Cavaliere: «Arriva? Lei dice? Posso toccarmi le p…e?».
A tutti i malanni arrivati in seguito, il corpo e la testa di Berlusconi hanno risposto allo stesso modo, seguendo sempre una liturgia ogni volta più difficile da replicare: malattia, guarigione, convalescenza, la sorpresa per il primo intervento telefonico a un convegno periferico di Forza Italia, il sollievo generale per la prima foto postata sui social, l’attenzione collettiva per il primo ritorno in televisione, il tutto come se fosse la prima volta che succede, con la strana magia di quei film che hai visto e rivisto ma è come se fosse sempre la prima volta. Si piange a questo punto, si sorride poi. Una sceneggiatura che l’amico Vittorio Sgarbi, ieri, sfruttando l’imminenza del Venerdì Santo, ha colorito con un parallelo noto più o meno a tutti: «Stavolta Silvio ci sorprenderà domenica, che è il giorno di Pasqua». È la vecchia storia, in fondo, dell’autoconsacratosi «unto del Signore». Trent’anni dopo .