Marco Ruotolo
Le vicende di questi giorni, oggetto di puntuale approfondimento nell’editoriale di Donatella Stasio del 14 luglio, impongono di tornare a riflettere sul tema della verità nel dibattito pubblico e in particolare politico.
La verità e la fiducia possono dirsi valori costituzionalmente rilevanti? Fino a che punto le “manifestazioni menzognere” sono “costituzionalmente tollerabili”? Possono davvero costituire limiti alla libertà di espressione?
È un terreno di riflessione complesso, che presenta indiscutibili profili di interesse per il costituzionalista. Rimanda, infatti, al rapporto tra autorità e libertà, invoca l’essenza della sovranità popolare, che appartiene al (e non emana dal) popolo (art. 1, secondo comma, Cost.), investe, persino, il rapporto tra i diritti inviolabili e i doveri inderogabili (art. 2 Cost.), per poi condurci al cuore della rappresentanza democratica, alle forme e alla sostanza della partecipazione di ciascuno alla vita politica del Paese. Una partecipazione, quest’ultima, che, presupponendo l’eguaglianza dei cittadini di fronte alle istituzioni (isonomia), richiede, per essere effettiva, la rimozione di ostacoli di ordine economico e sociale da parte della Repubblica (art. 3, secondo comma, Cost.), mettendo ciascuno in grado di potersi formare liberamente e consapevolmente un’opinione e, tra l’altro, di potere liberamente (e dunque anche consapevolmente) esercitare il diritto di voto (art. 48, secondo comma, Cost.). Senza dimenticare i doveri di solidarietà politica, economica e sociale che qualificano l’appartenenza del polít?s alla politéia, lo stare insieme, il condividere le sorti di una comunità, il cui adempimento, ove riferito a persone cui siano affidate funzioni pubbliche, è connotato con i significativi caratteri della «disciplina» e dell’«onore» (art. 54, secondo comma, Cost.).
Entro questa cornice, si può davvero dire addio alla verità? Se non si può forse affermare che la Costituzione statuisca «un generale obbligo di verità», nemmeno può dirsi che garantisca le «manifestazioni menzognere». Almeno nel contesto dell’esercizio di funzioni pubbliche dovrebbe escludersi che possa trovare protezione «una sorta di diritto alla menzogna», la quale, anche se non «vietata in sé, in quanto anch’essa è espressione del pensiero», ben potrà esserlo (e lo è) quando urti «contro uno dei limiti costituzionalmente imposti alla stessa libertà di espressione del pensiero» (Paolo Barile) o quando la mistificazione non riguardi, propriamente, il giudizio sul fatto ma l’esistenza stessa del fatto, in spregio ai valori della fiducia e della veridicità.
Se, come ha sostenuto Gustavo Zagrebelsky, «la democrazia non è il regime della verità» (perché «se c’è la verità, non ci possono essere discussioni, compromessi, elezioni, votazioni, maggioranze e minoranze, dissenso e garanzie»), essa «non può nemmeno essere il regime del contrario della verità, cioè della menzogna e dell’inganno». Anche perché, come ci insegna Häberle, «la verità è un concetto connesso con la libertà, la giustizia e il bene comune». E il cittadino, che necessita di verità, deve avere gli «strumenti per ricercarla e “conquistarla”», potendo vantare non soltanto un diritto a essere informato, ma anche a non essere disinformato.
A venire in rilievo è anche il delicato rapporto tra “informazione” e “fiducia”, che merita particolare protezione nel contesto politico, in vista di un’effettiva e consapevole partecipazione di ciascuno alla vita politica del Paese. Perché riconoscere che la menzogna sia stata da sempre considerata un mezzo lecito della politica non significa affermare che la stessa non incontri, nella sfera pubblica, alcun limite. Il limite principale – come ci ricorda Hannah Arendt – sta proprio nel rapporto con la verità dei fatti; un rapporto senz’altro difficile, perché l’interpretazione dei fatti (specie politici) è in sé problematica e aperta a diverse letture. Il che non significa, però, che questo rapporto non meriti di essere approfondito, guardando specificamente, come si è anticipato, al tema delle menzogne, delle falsità e delle distorsioni dei fatti che siano collegate alla funzione di rappresentanza politica del comunicatore. L’affidabilità dell’oratore non sembra poter essere scissa dalla veridicità della narrazione, da una rappresentazione che sia effettivamente collegata alla “verità dei fatti”, coessenziale all’instaurarsi di un effettivo rapporto di fiducia, fondamento di una rappresentanza che aspiri a essere democratica.
A ben vedere, più che la verità (o persino la veridicità) è dunque la menzogna, specie se organizzata, a poter rappresentare un limite per le libere opinioni nel contesto politico, in quanto lesiva dei diritti politici altrui e, specificamente, del diritto a essere correttamente informati. Il che significa, senz’altro, guardare al tema dei limiti alla libertà di manifestazione del pensiero non in termini unitari, ma valorizzando il fine della comunicazione e guardando anche al soggetto comunicatore, ove tali elementi implichino il venire in gioco di altri principi costituzionali e dunque l’esigenza della loro tutela (con riguardo alla comunicazione politica, ovvero alla funzione di rappresentanza politica esercitata dal comunicatore, il riferimento è, anzitutto, ai già richiamati principi che trovano espressione negli artt. 1, 48 e 54 Cost.).
Non si tratta di proporre un’etica della verità, ben consapevoli che il dubbio non è il contrario della verità. Si tratta, piuttosto, di distinguere il piano dell’esistenza da quello della conoscenza e della rappresentazione dei fatti. Senza avere troppe remore ad affermare che la menzogna del politico è sempre un tradimento della fiducia, non importa se ricercata (specie nella prospettiva del voto) o già ottenuta (a seguito dell’acquisizione del consenso).
Ordinario di diritto costituzionale Università Roma Tre