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30 Luglio 2023Quella tra uomini e fiumi è la storia di un’amicizia che è finita molto male. Non per colpa dei fiumi
Stefano Fenoglio, nel suo saggio, racconta di acque, canali e civiltà. E di un futuro incerto
Si pensa sempre al mare con la sua capacità di estendere i commerci, come enorme culla verde delle civiltà, da quella dei cartaginesi all’ascesa della Gran Bretagna ottocentesca. Si pensa spesso ai laghi e ai ghiacciai, a partire dalle calotte artiche. Per la loro enorme capacità di immagazzinare acqua dolce, per la loro funzione di riserva idrica, di cui i recenti cambi climatici stanno mettendo in discussione la durata.
Si pensa meno ai fiumi, come se i corsi d’acqua, alla fine, fossero solo una banale estensione di questi bacini principali. Non è così. Non c’è civiltà umana senza fiume. Non c’è quasi città senza fiume. Perché è proprio l’acqua in movimento, l’acqua che segue una direzione che ha portato l’uomo sino a dove è oggi. Ma il fiume, questo vecchio amico, è anche capace di rabbia, quando devasta o travolge. Addirittura di stanchezza, quando il carico che gli si fa portare diventa eccessivo persino per questo tipo di ecosistema, che è uno dei più resilienti reperibili in natura. Per rendersene conto basta leggere Uomini e fiumi. Storia di un’amicizia finita male (Rizzoli, pagg. 236, euro 18) di Stefano Fenoglio.
Fenoglio è professore all’Università di Torino e cofondatore del Centro per lo studio dei fiumi alpini (Alpstream / Parco del Monviso), ma ha anche una penna felice e un’ottima cultura storica. Così, nel libro si passa dal racconto personale quasi lirico – «Tra i miei primi ricordi d’infanzia c’è il guado di un fiume… L’acqua che mi arrivava sopra il ginocchio, avvolgendomi e spingendomi verso valle, i massi e i ciottoli che si muovevano sotto i miei piedi, il rumore della corrente, il riverbero della luce…» – ad una narrazione della storia umana che scorre nell’alveo giusto.
L’intensità del rapporto tra Homo sapiens e fiume viene spiegata a partire da dei dati statistici molto contemporanei e, nella loro enormità, molto semplici. È stato stimato che il 90% dell’umanità sia insediato a meno di dieci chilometri da un corso d’acqua. Il 50%, addirittura, a meno di tre. Senza la capacità dei fiumi di allontanare i liquami le città maggiori collasserebbero e si calcola che entro il 2050 sette persone su dieci vivranno in città.
Ecco che, allora, di fiumi si dovrebbe parlare di più. Ma perché, invece, ce li siamo dimenticati? Ci spiega Fenoglio parlando con il Giornale: «Per la maggior parte delle persone i fiumi sono scomparsi non solo dal quotidiano ma anche proprio dal paesaggio: scavalcati da ponti e viadotti, imbrigliati e canalizzati, al massimo li guardiamo dall’auto in corsa. Poi al momento della secca e dell’alluvione ci riflettiamo sopra, ma mai abbastanza a lungo. Mai per un ragionamento che vada oltre la contingenza». Del resto più che di una carenza tecnica si tratta di una carenza politica. «Abbiamo molti più strumenti di osservazione scientifica – ci dice ancora – di quanti ne avessimo cento anni fa. Non è che non siamo in grado di fare predizioni accurate di come si comporterà un fiume in determinate circostanze. Ma una volta che c’è un responso tecnico poi qualcuno deve prenderne atto, agire di conseguenza. Questo succede molto poco, perché ha dei costi e talvolta può essere impopolare. Non voglio nemmeno sembrare dietrista ma in zone in cui l’acqua dispone di molta energia cinetica, come nelle valli alpine, i nostri vecchi non hanno mai costruito, almeno in determinati contesti… Se vai a studiarle scopri quasi sempre un perché. Se ci vai a costruire senza guardare lo scopri, magari, in un modo molto peggiore». Per rendere l’idea di quanto i fiumi fossero compresi dai nostri antenati il libro presenta anche alcuni idronimi. Il fiume Stura ha un nome germanico connesso con la parola Sturm, un fiume mosso, impetuoso, turbolento. Molti fiumi che hanno un toponimo in Is si riconnettono al proto indeuropeo. Significa «che si muove velocemente». Isorno, Isel, Isère, Isarco… Basta il nome a volte per essere messi sull’avviso.
E di esempi di cattiva gestione dei fiumi nel libro se ne trovano tanti. Alcuni veramente emblematici, come ad esempio il caso di Londra e del Tamigi. Londra è stata una delle prime città al mondo a fare il salto verso l’industrializzazione. Tra il 1714 e la fine XIX secolo gli abitanti balzarono da 600mila a 6 milioni. La megalopoli vittoriana divenne, rapidamente, anche il primo centro urbano ad essere inquinato in senso moderno, con densità abitative molto più alte di quelle delle odierne città. Uomini ed animali si mischiavano provocando la produzione di un enorme quantitativo di lordure che venivano allontanate solo grazie al Tamigi. Che divenne una vera e propria fogna a cielo aperto. Il risultato fu il colera e poi il disastro del 1858 con The Great Stink (La Grande Puzza). Con la siccità il Tamigi diventò una massa gommosa di escrementi, interi caseggiati lungo il fiume dovettero essere abbandonati. Divenne ingestibile anche l’appena costruito palazzo di Westminster, che ospitava il Parlamento. Si dovette lavorare in tutta fretta ad una nuova rete fognaria. La sua realizzazione portò Londra nella modernità. Lo stesso fecero moltissime altre città. Ma il problema resta in pieno e caratterizzerà il futuro. Per usare le parole di Fenoglio: «In pratica rispetto ai tempi della Great Stink londinese, oggi immettiamo molta meno cacca nei fiumi, ma in compenso vi rilasciamo crescenti quantità di reflui chimici, fitofarmaci, medicinali… i quali però per loro natura purtroppo non puzzano e quindi passano spesso inavvertiti sotto le finestre della politica».
Speriamo non ci passino inavvertite anche altre cose, il trasporto fluviale sta tornando ad essere un tema di stringente attualità, parola di Fenoglio, ma i tempi in cui gli italiani scommettevano sulle vie d’acqua, persino con gli idrovolanti, sono lontani.