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Mai conosciuto un così lucido giullare, surreale come un saltimbanco dall’istinto dadaista e affilato come una spada satirica. A volte quando parlava non si capiva una mazza, ma lo ascoltavi lo stesso perché erano balbettii di genio, era capace di costruirci interi flussi di spettacoli destabilizzanti, come se fosse lui il Godot che tutti aspettavano, comese tra Messico e nuvole ci fosse tutto un legittimo mondo da cantare.
Enzo Jannacci era così, simpatico da morire, jazzista di temperamento e cantastorie per vocazione. Quando con l’occhio stralunato cantava: “Ho visto un re, se l’ha vist cus’è?”, su parole di Dario Fo, sembrava un burattino sfuggito dal controllo del suo burattinaio, poi era stato capace di portare al primo posto della hit parade (allora si chiamava così) una assurdità come Vengo anch’io, un tomentone sbilenco, irresistibile perchè a tutt’Italia veniva inevitabile rispondere “no tu no”, e poi gli uscì fuori quel trionfo di anacoluti in musica che era Quelli che…, un pezzo talmente moderno da poter essere inteso come un lavoro aperto, ci si poteva sempre aggiungere un altro “Quelli che…” e viene solo da ridere a pensare quanti ne avrebbe aggiunti al giorno d’oggi.
Perché poi è vero, “Silvano non valevole ciccioli” oppure “Giovanni telegrafista piripiripiri” ma quando gli andava era capace di abbatterti con pezzi strazianti, di una serietà mostruosa e senza sconti, e poteva essere Vincenzina e la fabbrica, poteva essere Sfiorisci bel fiore, “sfiorisci, amore mio, che a morir d’amore c’è tempo, lo sai”. Cantava degli straccioni e dei fragili come fossero amici suoi, l’Armando che volava via da una macchina, il barbone che portava “i scarp del tennis”, il palo della banda dell’ortica che era un po’ guercio e faceva arrestare tutti, e poi “Veronica, da giovane per noi eri l’America, davi il tuo amore per una cifra modica, al Carcano, in pè…”. Solo a elencarli tutti uno dopo l’altro viene fuori una galleria di ritratti straordinari e indimenticabili, perchè a dieci anni dalla sua scomparsa questo ci manca, un maestro che a canzoni componeva ritratti implacabili e talmente assurdi da essere veri più del vero.