GIUSEPPE SALVAGGIULO
«C’ è un disegno unico nelle riforme che attuano il programma fondativo di Forza Italia e affondano le radici nel disegno della Loggia P2», dice Nino Di Matteo, pm della Procura nazionale antimafia.
Cosa pensa del nuovo scontro politica-magistratura?
«Il dibattito sulle singole riforme rischia di essere insufficiente, se non fuorviante, senza una visione d’insieme. Vedo una continuità di lungo periodo. Nel solco del programma dei governi Berlusconi, negli ultimi anni la politica è pervasa da una voglia di rivalsa nei confronti di una certa magistratura».
Una certa?
«Quella che, in ossequio alla Costituzione, ha esercitato il controllo di legalità a 360°».
Con quali effetti?
«Le riforme Cartabia e Nordio vanno nella stessa direzione. Che non è rendere più veloce la giustizia, ma sdoppiarla. Implacabile sui reati comuni; lenta e spuntata verso le manifestazioni criminali dei colletti bianchi. Cartabia ha aperto il varco che Nordio percorre. Le sue riforme darebbero la spallata finale».
Dove sta la continuità?
«Improcedibilità che fa svanire i processi in appello e cassazione, inducendo le Procure ad atomizzare l’azione penale, tralasciando i sistemi criminali complessi. Previsione di querela per perseguire reati come sequestri di persona e lesioni gravi. Criteri di priorità dell’azione penale indicati dal Parlamento. Limitazioni al diritto di cronaca anche per notizie non più coperte da segreto. Fin qui la riforma Cartabia. Poi arriva il nuovo governo. Ampia liberalizzazione delle procedure di appalto. Abrogazione dell’abuso di ufficio. Limitazione del traffico di influenze. Ulteriore stretta sulla pubblicazione di intercettazioni non più coperte da segreto. Modifiche costituzionali su separazione delle carriere e obbligatorietà dell’azione penale. Non vedo discontinuità, ma un percorso unico, che tra l’altro affonda le radici in epoche lontane».
Quanto lontane?
«In parte significativa queste riforme coincidono con i programmi dei primi governi Berlusconi. E per certi aspetti, anche piuttosto rilevanti su giustizia e informazione, con il piano di rinascita democratica della Loggia P2».
Con quale obiettivo?
«Ridimensionare l’indipendenza della magistratura, controllarla direttamente e indirettamente. Questa è la posta. Il sistema di potere intende blindarsi, inattaccabile dal controllo di legalità».
Perché sottolinea il ruolo dell’informazione?
«Con la riforma Cartabia, delle indagini può limitatamente parlare solo il capo della Procura. Non il pm titolare dell’inchiesta. Paradossalmente, dei processi per le stragi potranno parlare i parenti di Riina ma non il pubblico ministero».
Non è un bene che i pm parlino con gli atti?
«Non è bene privare i cittadini della conoscenza di fatti di interesse pubblico».
Nordio ha rivendicato l’eredità politica di Berlusconi.
«La rivendicazione è nei fatti. Si va nella direzione tracciata con la discesa in campo del 1994. Sembra che oggi si voglia finalmente fare ciò che ai governi di centrodestra non era riuscito».
Perché oggi è possibile?
«Perché nel frattempo l’immagine della magistratura è diversa rispetto a 30 anni fa. La magistratura paga anche sue colpe, con una perdita di credibilità di cui il potere politico vuole approfittare».
Quali colpe? Gli scandali?
«Non solo. Negli ultimi quindici anni si è consolidata la tendenza di una magistratura dominata da carrierismo e burocrazia. Procure gerarchizzate e interessate più alle statistiche che all’approfondimento delle indagini».
Dove può portare la resa dei conti che lei paventa?
«A mettersi alle spalle la stagione dei maxiprocessi, delle indagini su rapporti mafia-politica o sulle stragi. Il momento è delicato. Ora si può ridisegnare la magistratura spuntando le armi del controllo di legalità e ingabbiandola nel concetto delle carte a posto».
Le carte a posto?
«Sta cambiando il Dna del giovane magistrato. Un tempo desiderava fare le indagini più complesse, anche correndo rischi. Oggi si preoccupa di non sbagliare, di non entrare in rotta col capo, di fare solo i processi facili per non “sporcare” le statistiche».
Condivide l’allarme per l’abolizione dell’abuso di ufficio, con poche condanne?
«Molti procedimenti nati da esposti di cittadini che ipotizzano abusi di ufficio finiscono per accertare turbative d’asta, corruzioni, interessi mafiosi nella pubblica amministrazione. Abolirlo significa bloccare le indagini mentre piovono centinaia di miliardi del Pnrr e indebolire la tutela del cittadino da condotte prevaricatrici del pubblico ufficiale».
E sul concorso esterno, inesistente nel codice?
«Questo reato è frutto dell’applicazione giurisprudenziale delle stesse regole del codice che valgono per ogni altro reato. Chi lo contesta ignora, o finge, che per primo fu Falcone a utilizzarlo per indagare Ciancimino; e che grazie a questo reato sono stati condannati politici importanti (Dell’Utri, D’Alì e Cosentino), funzionari di polizia, imprenditori, sindaci, magistrati. La mafia diventa più fluida, prescinde da vecchi riti di affiliazione formale. Eliminare il concorso esterno costituirebbe un grave danno».
Non bastano gli altri reati?
«Intanto si vuole limitare anche il traffico di influenze, che ha consentito di colpire faccendieri senza scrupoli. Andiamo in una direzione pericolosa. Oggi su oltre 57mila detenuti, meno di dieci scontano una pena definitiva per corruzione. In Italia la corruzione è stata debellata oppure, a me pare, è un fenomeno sostanzialmente impunito. Le riforme tendono ad allargare questa impunità».
Sorpreso dal nuovo governo?
«C’è un non detto di fondo. E mi fa specie, nel momento in cui esponenti del governo, a cominciare dal primo ministro, rivendicano l’adesione al modello ideale di Borsellino. Quando gli chiesero dei rapporti mafia-politica, Borsellino disse pubblicamente che il dramma dell’Italia è che se non c’è reato non si fa valere la responsabilità politica anche per comportamenti gravi e accertati».
Anche ora si continua a dire: aspettiamo le sentenze.
«Appunto. Ogni volta che si accerta un fatto, per esempio di contiguità mafiosa, la politica reagisce così, confondendo piani diversi. La responsabilità giuridica risponde al principio di non colpevolezza fino a sentenza definitiva; quella politica dovrebbe scattare a prescindere e prima, sulla base di fatti già conosciuti. Un approccio contraddittorio che di fatto abolisce la responsabilità politica».
Ricomincia il conflitto politica-magistratura?
«Non è stata la magistratura a invadere il campo della politica, ma la politica ad accollare alla magistratura il compito di risolvere casi di condotte incompatibili con il ruolo pubblico. Salvo poi lamentare che la magistratura fa campagna elettorale».
Teme eccessi retorici nell’anniversario della strage di via D’Amelio?
«Io sto ai fatti. Non mi pare che le riforme vadano nella direzione auspicata da Borsellino per rafforzare la lotta alla mafia. Piuttosto, la indeboliscono sul fronte più delicato. Così non si onora l’eredità morale di Falcone e Borsellino. La si tradisce».