Sanità un affare privato
Paolo Russo
«Il definanziamento della sanità porterà alla sua privatizzazione», si sente spesso ripetere. Ignorando che il privato vale già oltre la metà del pubblico. Perché ad avanzare non è soltanto la spesa per cure, farmaci e accertamenti sostenuta direttamente dai cittadini, che secondo l’ultimo rapporto dell’Economia è aumentata in un anno del 20,7% portandosi nel 2021 a 37,16 miliardi. Passo dopo passo sale anche quella per il privato convenzionato finanziato con soldi pubblici, che nel 2012 pesava per 22,5 miliardi e nel 2021 ne valeva 25,5, con una crescita più o meno costante dell’1,4% l’anno, certifica sempre il Mef. Un business alimentato da tariffe per la diagnostica pagate dalle Regioni che arrivano a essere anche il doppio di quelle che lo stesso privato applica agli assistiti paganti di tasca propria. Per non parlare degli affari che il privato convenzionato fa con i ricoveri, visto che la sua offerta si concentra di solito sulle prestazioni più remunerative, lasciando al pubblico quelle maggiormente onerose, come i pronto soccorso, le terapie intensive o la prevenzione, che fa risparmiare in futuro ma non porta denari nel presente.
Comunque sia, fatte le somme, è un giro d’affari che per la sanità privata ammonta ormai a 62,7 miliardi, mentre tolti dai 128 miliardi del fondo sanitario nazionale i 25 e mezzo destinati ai privati convenzionati si scopre che alle strutture pubbliche restano poco più di 100 miliardi. E uno studio condotto da due ricercatori dell’Istat, Monica Montella e Franco Mostacci, pubblicato su Voce.it, mostra che la maggiore spesa privata non ha comportato alcun miglioramento dell’offerta sanitaria, misurata sul livello di adempimento dei Lea, i livelli essenziali di assistenza.
Del resto non potrebbe essere altrimenti esaminando come lo Stato strapaghi i privati convenzionati per gli accertamenti diagnostici, lasciando poi a loro anche i ricoveri più redditizi. Partiamo dai primi. Il tariffario, vecchio di vent’anni, è stato finalmente aggiornato e le nuove tariffe per tac, risonanze, doppler e quant’altro entreranno in vigore il 1° gennaio prossimo, ritoccando ancora all’insù i rimborsi, visto che per lo Stato ci sarà un aumento di spesa pari a 174,8 milioni nonostante siano state escluse tutta una serie di prestazioni ormai obsolete. Ma già con le vecchie tariffe per il privato gli accertamenti diagnostici sono una gallina dalle uova d’oro, nonostante i rimborsi siano uguali a quelli destinati al pubblico. Solo che il privato quando è il cittadino ad aprire il portafoglio riesce a praticare tariffe molto più economiche. In Lombardia, ad esempio, per una risonanza magnetica il rimborso della Regione al privato convenzionato arriva ad essere dell’89% maggiore di quello che quest’ultimo chiede agli assistiti solventi. In Liguria si arriva a una differenza del 196%, in Veneto addirittura al 219%. Più o meno stesso discorso vale per tac al torace ed ecografie all’addome, tra gli accertamenti più gettonati di quei 55 milioni che ogni anno vengono eseguiti fuori da ospedali e ambulatori pubblici, rimborsati molto di più di quel che costano ai privati, viste le tariffe decisamente inferiori che questi riescono a praticare quando si svestono del redditizio ruolo di convenzionati con l’Ssn.
Quanto si potrebbe risparmiare se lo Stato rimborsasse come pagano i cittadini da solventi non è facile stabilirlo. Ma a vedere le differenze tra privato convenzionato e privato-privato, calcolando inoltre che per gli accertamenti diagnostici lo Stato rimborsa ai privati 4,7 miliardi, è lecito stimare che 2 miliardi potrebbero tornare in cassa. Magari per assumere medici e infermieri, tagliando le liste d’attesa. Che a loro volta foraggiano sempre il privato.
Ma anche il pubblico deve farsi un esame di coscienza. Perché se va in rosso nonostante rimborsi decisamente più alti delle tariffe che il privato-privato riesce a praticare, evidentemente un bel po’ di inefficienza anche da quelle parti deve esserci. E se è vero che il pubblico dietro la singola prestazione deve conteggiare anche i costi vivi per servizi che non sono rimborsati a tariffa, lo è altrettanto che tra il 30 e il 50% dei finanziamenti che le strutture ricevono dalle Regioni sono non per i singoli servizi resi, bensì per ammortizzare i costi generali, certifica uno studio di qualche tempo fa della Fiaso, la Federazione di Asl e ospedali.
Ma il privato di affari d’oro ne fa anche con i ricoveri. Prendiamo la Lombardia, dove il 70% delle degenze sono nel pubblico e il 30% nel privato. Ma quest’ultimo a Milano, dove fanno capo i colossi della sanità convenzionata, fa l’88% dei bypass coronarici, il 68% delle protesi d’anca e ginocchio e impianta il 60% dei defibrillatori. Tutte prestazioni a tariffe redditizie. Il pubblico si sovraccarica invece l’80% delle emorragie cerebrali, l’87% delle leucemie, l’82% dei tumori ai polmoni, il 90% degli aborti, l’80% dei calcoli e il 78% delle polmoniti. Interventi comuni e poco remunerativi. E infatti i bilanci degli ospedali pubblici lombardi sono in rosso mentre i colossi privati continuano a trovare redditizio investire nella sanità. «La spesa per il privato convenzionato è vincolata a un tetto anacronistico che non le consente di andare oltre quanto speso nel 2011», replica Barbara Cittadini, Presidente dell’Aiop, l’associazione dell’ospedalità privata. Che poi però precisa: «Per contrastare le liste d’attesa sono state concesse delle deroghe, che hanno inciso in misura limitata sulla spesa». E sulla questione dei ricoveri più remunerativi ci tiene a dire che «non sono le strutture private a limitare l’offerta ma le Regioni che acquistano volumi e quantità di prestazioni in base alla loro programmazione. E alcune, come Emilia-Romagna, Abruzzo e Sicilia, non autorizzano le convenzioni per terapie intensive e pronto soccorso con i privati».
Intanto i dati del ministero della Salute documentano che è andato ai privati il 30% delle risorse stanziate per il recupero delle liste di attesa, che continuano a non essere un buon affare soltanto per gli assistiti.