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16 Luglio 2022di Giovanni Bianconi
Il processo ai presunti responsabili del sequestro (uno anche delle torture e dell’omicidio) di Regeni non si può fare. Lo ha deciso la Cassazione: manca la «prova certa» che gli imputati abbiano saputo del dibattimento a loro carico.
ROMA Niente da fare, l’ostruzionismo dell’Egitto ha vinto: il processo ai presunti responsabili del sequestro (uno anche delle torture e dell’omicidio) di Giulio Regeni non si può fare, manca la «prova certa» che gli imputati hanno saputo del dibattimento a loro carico.
Lo ha deciso la Corte di cassazione, che ha respinto il ricorso della Procura di Roma, della Procura generale e dei familiari di Giulio i quali hanno sostenuto — e almeno parzialmente dimostrato — che in realtà i quattro funzionai della National security erano dei «finti inconsapevoli», e che con la complicità delle autorità del Cairo hanno utilizzato la tecnica delle mancate risposte per boicottare e bloccare il giudizio.
«Non ci sarà mai una pietra tombale su questo caso perché noi ci saremo sempre», aveva detto in mattinata l’avvocata Alessandra Ballerini, in rappresentanza dei genitori di Giulio, chiedendo che la Cassazione annullasse l’ordinanza di sospensione del processo del giudice, dopo che la Corte d’assise aveva rispedito indietro il fascicolo proprio per via delle mancate notifiche. E dopo il verdetto Paola e Claudio Regeni commentano: «È una ferita di giustizia per tutti gli italiani»
Ma al di là della costante testimonianza della famiglia e di chi l’ha sempre sostenuta (come il presidente della Federazione della stampa Giuseppe Giulietti), della tenacia con cui il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco ha provato a dimostrare che gli egiziani sapevano fingendo di non sapere, affiancato nell’ultimo tratto anche dalla procura generale della Cassazione, ha vinto il «diritto tiranno» dell’imputato , come l’hanno definito i pubblici ministeri. Ha prevalso la regola di diritto che dev’esserci la «prova certa» che l’accusato sia informato del procedimento a suo carico, anche se in questo modo diventa una sorta di «prova diabolica», perché «per affermare che l’imputato si è sottratto alla conoscenza degli atti si deve provare che ne abbia avuto conoscenza».
Così aveva scritto il pm Colaiocco nel suo ricorso, definendo «abnorme» la sospensione sine die ; la Procura generale aveva anche suggerito di rivolgersi alla Corte costituzionale per l’irragionevolezza della norma. Tutto «inammissibile» per i giudici «di legittimità», che sorvegliano sul rispetto delle regole e hanno ritenuto quella «prova certa» un ostacolo insuperabile. Poco conta, evidentemente, che l’Egitto abbia depistato e nascosto prove con l’obiettivo di intralciare le indagini e poi il processo. Fino alle mancate risposte alle reiterate rogatorie in cui si chiedevano i recapiti dei quattro imputati, negate proprio per «impedire le notifiche agli imputati».
A questo punto il giudizio a carico del generale Tariq Sabir, dei colonnelli Athar Kamel e Usham Helmi, e del maggiore Magdi Ibrahim Sharif cade in un limbo dal quale sarà pressoché impossibile recuperarlo. La sospensione diventa una sorta di tomba del processo. Il ricorso in Cassazione chiedeva di andare avanti anche col banco degli imputati vuoto, ed era l’ultima carta per poter arrivare a una sentenza; la sua bocciatura ha bruciato questa possibilità. I genitori di Giulio potranno rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, l’avvocata Ballerini l’ha fatto capire nella sua memoria, e i genitori di Giulio confermano: «Non possiamo accettare né consentire l’impunità per chi tortura e uccide». Ma per adesso l’impunità ha vinto.