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Siamo tutti pacifisti, ma per mantenere la pace in Europa è necessario prepararsi alla guerra. Sembra ormai questo il mantra che si ripete nei dibattiti televisivi, e di cui discutono i parlamentari di tutti i paesi dell’Unione. I giornalisti che frequentano Bruxelles e Strasburgo riferiscono di politici che si dichiarano convinti di una previsione: nell’arco del prossimo decennio, Putin potrebbe attaccare un Paese europeo, a prescindere dagli esiti delle trattative con Trump sull’Ucraina. Accanto a questa previsione, che non si basa – come è ovvio – su nessuna notizia o dato certo, e su nessun tipo di riscontro geopolitico (ma davvero la Russia potrebbe essere interessata a estendere il suo potere militare in Europa? e a quale scopo?), si sostiene un’analisi sulla fragilità della difesa europea dopo gli annunci di Trump sul progressivo ritiro del controllo militare americano (si chiuderanno anche le basi e si traslocheranno i missili Usa?). Insomma, armiamoci e partiamo. Ma verso dove?
Sembra di raccontare la trama di un film di fantascienza, e in effetti molti dei contenuti del dibattito attuale potrebbero essere stati estrapolati da una sceneggiatura distopica. Ma dietro la solita cortina fumogena del dibattito mediatico si stanno muovendo forze e si rimescolano i rapporti tra gli Stati, l’economia e la finanza. In gioco ci sono interessi giganteschi che questa volta, dopo il Covid che ha arricchito la grande macchina dell’industria farmaceutica, ruotano intorno all’industria della difesa. In Italia, il fumo mediatico è molto denso e i polveroni sollevati dai rappresentati del governo rendono più difficile capire come stanno le cose. L’esempio più eclatante è stata la performance di mercoledì 19 marzo della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in parlamento.
In grande difficoltà, sul piano dei rapporti internazionali e dei rapporti interni con i suoi alleati, la premier, imboccata sicuramente da qualche suggeritore colto, invece di chiarire la posizione italiana sulla questione esplosiva del riarmo proposto dal piano di Ursula von der Leyen, si è lanciata nella mischia con una invettiva contro i padri dell’Europa, quegli uomini che scrissero il Manifesto di Ventotene, considerato il progetto di base per la costruzione di una federazione di Stati che ha come traguardo finale gli Stati Uniti d’Europa. “Io non mi riconosco in quella Europa”, ha detto Meloni citando alcuni passaggi del Manifesto che alludono al superamento della proprietà privata, alla giustizia sociale e alla socializzazione della ricchezza. Apriti cielo: un documento eversivo scritto da potenziali rivoluzionari, che per fortuna erano stati resi innocui con il confino di cui ovviamente non si ricorda la paternità – come se Spinelli, Rossi e Colorni avessero deciso di trascorrere una vacanza in una bella isoletta del Tirreno, e si fossero messi a scrivere di filosofia politica per ingannare il tempo.
Sicuramente ci sarà anche questa volta chi darà credito alla leader dell’antisocialismo. Ci sarà qualcuno che, avendola votata, si sentirà rassicurato da un governo e da un partito che si pongono come argine della “rivoluzione proletaria”. Ma ci sarà anche qualcun altro che si farà prendere dalla curiosità, e che magari andrà a leggersi il Manifesto di Spinelli e dei suoi compagni, che tra l’altro non sono mai stati dei comunisti sovietici, rappresentando piuttosto la cultura democratica e liberale italiana. Quello di Meloni è stato dunque un attacco ai fondamenti della filosofia democratica, rivenduto alle masse come un attacco al comunismo.
Ma veniamo alle cose serie. Qual è il vero motivo dell’imbarazzo di Meloni? La risposta si può sintetizzare facendo riferimento a due questioni di fondo che determineranno le scelte politiche del prossimo futuro. Il primo motivo di imbarazzo riguarda la spesa pubblica. Ursula von der Leyen nel suo ReArm Europe (che è cosa molto diversa dalla costruzione di un sistema comune di difesa) ha parlato esplicitamente della necessità di aumentare la percentuale di investimenti in armi di ogni singolo Stato. Dall’1,5/2% si dovrà passare al 3-3,5%. Tantissimi soldi che saranno stornati da altri capitoli di spesa. La difficoltà politica di tutti i governi europei sta quindi, da una parte, nella rottura del tabù dei tetti di spesa (sulle armi l’austerity non si applica), e dall’altra sulla redistribuzione interna alla stessa spesa pubblica. Si dovranno riconsiderare tutti i carichi (le “poste”) e gli impegni per il futuro. Dando per buona (ma noi non le crediamo) la versione di Meloni sulla volontà di non tagliare ulteriormente la sanità e la scuola pubblica, è evidente che se quote consistenti del Pil delle nazioni saranno indirizzate verso le spese per armamenti, si dovrà rinunciare a tanti altri progetti di ricerca industriali, legati magari alla sostenibilità ambientale. La torta è sempre quella.
Ma attenzione, qui viene il bello. Ed è la seconda questione che crea imbarazzo. Siccome le fette della spesa pubblica sono sempre quelle, allora l’idea geniale della stratega von der Leyen è quella di andare a pescare nel grande mare del risparmio privato, ovvero delle famiglie. In tutte le sue recenti esternazioni, la presidente della Commissione europea ha detto che, per riarmarci, dobbiamo andare a cercare soldi nei conti correnti degli europei, che, siccome non sempre si fidano delle Borse, tengono fermi i loro risparmi (per chi se li può permettere) in banca, in attesa di un qualche imprevisto famigliare da gestire o di tempi migliori. Per chi è a caccia di risorse quei depositi (si calcola diecimila miliardi di euro) sono oro da far fruttare, indirizzandoli verso investimenti redditizi e agevolati da una nuova fiscalità di favore con il vincolo rigido della destinazione in acquisti degli armamenti necessari per difenderci dal nemico. E infatti, in questi ultimi mesi, come sanno tutti, i titoli che volano sono quelli legati all’industria della difesa (vedi da noi Leonardo, solo per fare un nome).
Meloni e i suoi colleghi europei hanno quindi un grosso problema politico. Convincere i cittadini della necessità di “riconvertire” la spesa pubblica e nello stesso tempo di mobilitare le risorse delle famiglie per il riarmo. Si cercano volontari per la Patria. Saranno i promotori e i consulenti finanziari di banche e fondi a spiegarci dove dobbiamo investire. Ma gli eredi del fascismo sanno bene che la storia non si ripete mai uguale a se stessa, e che oggi risulterebbe impossibile replicare la “giornata della fede” di quel 18 dicembre 1935, quando, per rastrellare risorse per la guerra di Etiopia, Mussolini chiese agli italiani di rinunciare al loro oro per comprare armi. Quel giorno, davanti all’Altare della Patria, molte donne aristocratiche borghesi e popolane sfilarono sotto la pioggia per consegnare le loro fedi ai gerarchi. In cambio, ebbero un anello di ferro. E poi, dopo qualche anno, una guerra mondiale e centinaia di migliaia di morti. Ma appunto, la storia non si ripete. Ultima annotazione. Sapete chi si sta facendo avanti per gestire la grande operazione finanziaria della guerra? I fondi di investimento più grandi del mondo. Che sono quasi tutti americani – alla faccia dell’autonomia europea.