
Beyoncé – Formation
15 Giugno 2025di pierluigi piccini
Come è possibile parlare di nuovo umanesimo se non c’è la pace?
La pace non è uno sfondo neutro, una cornice tra le altre. È la condizione essenziale, imprescindibile. Senza pace, l’umano si smarrisce, il pensiero si chiude, la speranza si spegne. L’umanità non può rinascere sotto le bombe, né trovare un nuovo inizio nella violenza. Per questo, prima di ogni filosofia e prima della politica, occorre il coraggio di dirlo: non ci sarà nuovo umanesimo senza la fine della guerra.
Viviamo in un tempo spezzato. Un tempo frammentato tra paure globali e solitudini locali. E in questo tempo, non basta più sopravvivere. Dobbiamo scegliere, ogni giorno, di essere ancora umani.
C’è qualcosa di rotto nel presente che abitiamo. Non parlo soltanto della paura diffusa, né della stanchezza che ci logora silenziosamente. Parlo di una frattura più profonda: la perdita del senso, della fiducia, di un orizzonte comune. Siamo intrappolati in un presente che sembra non finire mai, sospesi tra emergenze e traumi. La pandemia ci ha segnati nel profondo: ci ha insegnato la distanza, la diffidenza, il sospetto verso i corpi, persino verso l’aria che respiriamo.
E mentre cercavamo di rialzarci, sono tornate le guerre. L’Ucraina, la Palestina, l’Iran: scenari diversi, stessa logica di morte. Conflitti che riportano l’umanità sull’orlo del disastro, persino nucleare. Eppure, nel cuore dell’Occidente, si consuma un’altra guerra, più silenziosa ma non meno devastante: è quella contro la dignità delle persone. Aumentano la povertà, la solitudine, la rottura dei legami. Le istituzioni appaiono lontane, impersonali, spesso incapaci di parlare la lingua dei vivi. Il lavoro non garantisce più senso né futuro. La democrazia resiste solo nei suoi riti formali, ma si svuota nei cuori. La libertà si è fatta sospetto, il merito è diventato selezione, la giustizia un’eccezione e non la regola.
In questo scenario, mi chiedo se abbia ancora senso parlare di sopravvivenza. Forse no. Forse la domanda giusta è un’altra: come si ricomincia a essere umani?
Non si tratta solo di resistere, né di aspettare che la tempesta passi. Si tratta di un gesto più profondo, quasi radicale: ritrovare il filo della nostra umanità proprio mentre tutto intorno ci spinge al cinismo, alla chiusura, alla paura. Non si parla qui di un’utopia astratta, ma di una scelta concreta: abitare la fragilità invece di fuggirla, riconoscere il limite come condizione per costruire legami, accettare la vulnerabilità come spazio della cura.
Il pensiero filosofico, oggi più che mai, non può essere evasione né consolazione. È sguardo che non distoglie, rigore della coscienza, esercizio del pensiero in mezzo al disastro. Ci ricorda che ogni parola conta, che ogni gesto ha una responsabilità, che ogni scelta ci definisce.
Ricominciare a essere umani significa tornare a dire “noi” dove il linguaggio dominante ci vuole soli. Significa sapere che nessuna libertà è vera se si esercita contro qualcun altro. Che non esiste sicurezza senza giustizia. Che nessuna pace può durare se non è condivisa.
In un mondo che si frantuma, scegliere l’umano è il più alto atto politico possibile. È dire che il senso della vita non sta nel vincere, ma nel comprendere. Non nell’accumulare, ma nell’offrire. Non nel chiudersi, ma nell’attraversare.
Abbiamo bisogno di pensiero, sì. Ma anche di comunità reali. Di gesti che non siano eroici ma quotidiani. Di parole che non coprano, ma rivelino. Di una memoria viva, che non serva a ripetere, ma a orientare. E soprattutto, di una politica che torni a immaginare il futuro, non solo a gestire l’esistente.
Questo non è un discorso teorico. È una necessità interiore, ed è insieme una responsabilità pubblica.
Ricominciare a essere umani. È questa la sfida. Ed è, forse, l’unico modo per dare senso al tempo che viviamo.
Scrivendo, ho sentito vicine le voci di chi ha saputo pensare e agire in tempi oscuri senza cedere alla disperazione: Hannah Arendt e il coraggio del pensiero. Levinas e la responsabilità per l’altro. Simone Weil e la fame di giustizia. Camus e la rivolta senza odio. Ricoeur e la speranza che lavora. Ma più di tutti, Ernst Bloch, con la sua filosofia del “non ancora”, con l’idea che l’umanità sia un progetto incompiuto, da ricostruire ogni giorno. Anche oggi. Anche qui.