Il dossier
Uno dei pilastri del governo approda in Parlamento per il parere delle Camere: i fondi sono gli stessi stanziati nel passato Il Pd: “È marketing”
ROMA — Il grande bluff. Era il 25 ottobre 2022 quando, nel discorso per chiedere la fiducia alle Camere, Giorgia Meloni citò per la prima volta il piano Mattei: indicato fra i pilastri del suo mandato, venne presentato come un modello virtuoso di collaborazione tra l’Europa e l’Africa all’insegna del “aiutiamoli a casa loro”, in grado di arginare il fenomeno migratorio.
Ebbene, quasi due anni dopo, il Dpcm contenente le specifiche degli interventi che l’Italia intende realizzare in 9 Paesi del continente africano è stato finalmente inviato al Parlamento per il parere richiesto dalla legge. E, sorpresa, non solo si pretende di fare le nozze coi fichi secchi, dal momento che non un euro in più è previsto rispetto a quelli già stanziati in passato: dei 5,5 miliardi in dotazione per i prossimi 4 anni, circa 3 miliardi provengono dal Fondo per il clima istituito dal governo Draghi, mentre altri 2,5 miliardi vengono prelevati dal budget per la cooperazione di stanza alla Farnesina e al Mef, che ora passeranno alla Presidenza del Consiglio. Ma quasi tutti i “nuovi” progetti pilota sono in realtà vecchi. Restituendo l’impressione di aver raschiato il fondo del barile pur di riempire di contenuti un Piano in effetti vuoto. Soprattutto senza una visione che non siano gli interessi delle compagnie energetiche tricolori, Eni ma anche Enel e Snam, che da quelle parti hanno da anni investimenti corposi.
Ma andiamo con ordine. Nella primavera 2022, all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina, l’allora ministro degli Esteri Luigi Di Maio e l’ad di Eni Claudio Descalzi si recano in Qatar, e poi pure altrove, per incrementare le nostre scorte di gas. Con l’avvento del governo Meloni, a questa missione si affianca l’ossessione di azzerare gli sbarchi. Nel gennaio 2023 la premier in missione in Algeria sostiene che «il nostro modello di cooperazione non è predatorio » ma basato su una «cooperazione paritaria». Peccato che nel decreto si scriva espressamente che il piano Mattei si occuperà della «promozione della sicurezza nazionale in tutte le sue dimensioni, inclusa quella economica, energetica, climatica, alimentare e del contrasto ai flussi migratori irregolari». È questa la vera finalità. Tant’è che nella governance affidata alla cabina di regia insediata a Palazzo Chigi non si prevede la partecipazione di paesi, istituzioni pubbliche o enti privati africani. Mistificazione smascherata a sei mesi fa da Moussa Faki, presidente della Commissione dell’Unione Africana, nel suo j’accuse in Senato.
Entrando nel dettaglio, il Piano si articola su sei settori strategici — energia, agricoltura, infrastrutture, istruzione e formazione, salute, acqua — e al momento prevede 14 progetti, di cui solo due nuovi, fra l’altro promossi da una grande azienda privata, Bonifiche Ferraresi, con la garanzia di Cassa depositi e prestiti.
Ciò che non è possibile stabilire è in base a quali criteri sono stati individuati i 9 paesi destinatari degli interventi. E così viene naturale pensare che la Costa d’Avorio sia stata scelta sia perché da lì proviene il grosso dei migranti, sia perché nel 2021 l’Eni ha scoperto un giacimento offshore di olio e gas. Stesso discorso per l’Algeria, che è il nostro principale fornitore di gas. Ed è sempre targato Eni il progetto nella Repubblica del Congo per portare l’acqua nel distretto di Hinda, iniziato però nel 2012. Come pure quello in Kenya per lo sviluppo di biocarburanti.
In Egitto sono invece previsti tre interventi: uno in agricoltura by (di nuovo) Bonifiche Ferraresi, gli altri nel campo dell’istruzione con l’aiuto delle controllate Sace e Simest, nonché di Confindustria. Anche qui: c’entrerà forse l’importante scoperta di gas al largo del Paese governato da Al-Sisi, annunciata l’anno scorso da Eni? Per non dire del Mozambico, che casualmente ospita il più grande giacimento di gas africano gestito, manco a dirlo, dal cane a sei zampe. Ma il caso forse più eclatante è la Tunisia: l’Elmed, ovvero l’interconnessione elettrica sottomarina tra Italia e Tunisia, non solo è finanziato dalla Ue che la riconobbe come infrastruttura chiave nel 2017, ma l’accordo per la posa di cavi e tubi risale al 2019. E così i due progetti in Marocco, uno dei quali in discussione da anni (Casa Italia). E sempre antecedente alla stesura del Piano è il progetto in Etiopia sul recupero ambientale dell’area del lago Boye, adottato con un’intesa siglata da Meloni e Abyi Ahmed il 6 febbraio 2023.
Sono le ragioni per cui le opposizioni promettono battaglia. «È una scatola vuota», attacca Peppe Provenzano, responsabile Esteri del Pd. «Accentrano risorse a Palazzo Chigi, scippandole alla cooperazione dalla Farnesina e al Fondo clima del ministero dell’Ambiente, usando quest’ultimo per finalità non proprie. Mancano indicatori, risultati attesi, valutazioni. Manca il coinvolgimento dell’Europa e un’idea di stabilizzazione istituzionale dell’Africa», attacca. «Le uniche cose positive sono i progetti di cooperazione che già erano in campo. È solo un’operazione di marketing». Senza appello pure la bocciatura dei dem Enzo Amendola e Lia Quartapelle: «Il piano del governo è deludente: zero risorse in più; vecchi progetti riciclati come nuovi; il rincorrere gli obiettivi delle grandi imprese energetiche, e poca sostanza. La sola cosa chiara è la volontà di accentrare tutto a Palazzo Chigi: la sete di dominio di Meloni rischia di far fallire tutto».