“Mi hai ingabbiato nella salsedine della tua lingua”. Alda Merini e Giorgio Manganelli
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28 Gennaio 2024di Rosella Postorino
Nel libro A Woman in Berlin, diario della primavera del ’45 a Berlino, che pubblicò in forma anonima dopo la guerra, Marta Hillers racconta che, in attesa dell’arrivo dei russi, le donne tedesche dicevano, per esorcizzare la minaccia di stupro: meglio un russo addosso che un americano sulla testa. Purtroppo – lo sappiamo – la minaccia divenne realtà; gli stupri di massa dell’Armata Rossa furono probabilmente intorno ai due milioni, ma ai processi di Norimberga quasi non se ne parlò. Ai piani alti degli edifici pericolanti venivano nascoste le vergini, come se a dover essere tutelata fosse la verginità, non il corpo, la dignità di una donna. Una signora teneva la fede nelle mutande per non farsela rubare: tanto, diceva, se arrivano lì non conterà più – come se un matrimonio perdesse validità perché la moglie è stata posseduta da un altro (è di possesso, di proprietà, che si tratta?).
Al ritorno dal fronte, scoprendo ciò che lei e altre donne avevano vissuto (le violenze, ma anche la possibilità di ottenere cibo in una città in macerie, se diventavano l’«amante» fissa di un soldato Ivan), il fidanzato di Marta le definì spudorate come cagne. Pochi giorni dopo ripartì.
Perché non riusciva a provare empatia? Perché gli uomini, e spesso pure le donne, ritengono (anche quando non ne sono consapevoli, anche se non lo dichiarano) che lo stupro implichi una colpevolezza della vittima? Lo penserebbero, della tortura di un prigioniero? Di qualunque altra forma di violenza fisica? È per tutti comprensibile che qualcuno subisca le botte senza reagire, restando inerte pur di salvarsi; invece una donna deve opporsi con ogni forza, rischiando di morire, pur di non essere stuprata. L’ha spiegato bene Alice Sebold in Lucky: «Chi dice che preferirebbe lottare fino alla morte piuttosto che farsi violentare è un idiota […]. Io diventai tutt’uno con quell’uomo. Quell’uomo teneva in mano la mia vita».
C’è qualcosa nella violenza sessuale che impedisce di vedere la vittima come vittima e basta, ed è proprio il sesso. Quella violenza passa per il sesso: qualcosa di misterioso, che attinge ai fantasmi dell’inconscio; soprattutto: qualcosa che, nell’immaginario comune, riguarda il piacere, per questo associarlo all’abuso crea un cortocircuito. Come Catharine A. MacKinnon – la giurista e filosofa americana che, dopo la guerra in Bosnia, ha ottenuto il riconoscimento internazionale dello stupro come crimine di guerra – io non credo che la violenza sessuale sia separata dal sesso. (Altrimenti, chiede MacKinnon, perché lui non l’ha semplicemente picchiata?).
Stando ad alcuni antropologi, la frequenza degli stupri in una società si potrebbe prevedere in base alla propensione della stessa a entrare in guerra. Ho letto testimonianze di reduci sul libro Ho paura di me, della psicanalista Marina Valcarenghi. «Lo facciamo quasi tutti, non sei obbligato, ma se non lo fai non sei ben visto, anche questo fa parte dello spirito di corpo», dice uno, «raramente si desiderano le donne che si violentano […], si desidera violentare in sé». Il reduce che più mi ha colpito confessa: «Era qualcosa che si fa perché c’è il desiderio, non era la donna, la donna non c’entra, ma lo stupro in sé, come se quello fosse un desiderio che di solito se ne sta nascosto da qualche parte e in guerra viene fuori».
In Stupro, Joanna Bourke ricorda i risultati di un’inchiesta del 1981, in cui un terzo degli studenti di un college ammetteva che avrebbe violentato una donna se fosse stato sicuro di non essere arrestato.
Valcarenghi sostiene che la violenza faccia parte del patrimonio istintivo, perché è istintivo cercare di soddisfare un desiderio anche quando è avversato. Il problema non è nel desiderio violento, ma nel «fallimento dell’inibizione», che dovrebbe derivare dal processo educativo, ossia dalla cultura. Il punto è che la cultura in cui viviamo è sempre stata ambivalente nei confronti della violenza sessuale sulle donne. Secondo MacKinnon non si possono scindere le relazioni di genere dalla loro dimensione sessuale. La dominazione sessuale degli uomini sulle donne struttura il mondo sociale nel suo insieme, e viceversa.
La società patriarcale è fondata su un rapporto di potere e sfruttamento; questo la rende gerarchica, razzista, classista e misogina. Desessualizzare lo stupro offuscherebbe il suo ruolo nella costruzione della gerarchia dei sessi, anziché indebolirlo, come scrisse la filosofa Ann J. Cahill.
Se, come MacKinnon, riconosciamo una reciprocità tra la sessualità e l’organizzazione sociale, allora crediamo anche che modificare la società possa contribuire a modificare i comportamenti sessuali, i quali sono stati storicamente stabiliti dal maschile: iniziano quando lui ha un’erezione e finiscono quando ha un orgasmo. «Lo vuoi come lo voglio io»: quante di noi se lo sono sentito dire?
Davvero gli uomini sono così incapaci di riconoscere la condizione emotiva della donna che hanno davanti? «Quali sono le puttane?» chiese Valcarenghi a un sex offender che in seduta le aveva appena menzionate. «Quelle che mi attizzano».
È evidentemente necessaria, in primis, l’educazione relazionale. Ma in generale bisogna rovesciare la subordinazione sociale ed economica delle donne, combattere la loro subalternità come status dato per scontato, ritenuto «naturale», perché naturale sembra nel sesso la sottomissione femminile.
A differenza di quello fra animali, però, il sesso fra persone è sempre un fenomeno culturale. La complessità della sessualità maschile nei confronti delle donne trapela in un’indimenticabile scena de La Storia di Elsa Morante, perché solo la letteratura consente un’intelligenza così profonda delle cose umane, della loro contraddittorietà inestricabile. Prima il soldato della Wehrmacht dice a Ida che vuole «fare amore» in uno «sfogo fanciullesco» – è un ragazzo irrequieto, ingordo, rapace: non è troppo diverso da suo figlio Nino – e poi la violenta con rabbia, «come se volesse assassinarla». Ma dopo l’orgasmo, placato, liberato dalla smania, la riempie di baci sul viso, esplorandola «al centro della sua dolcezza materna».
La serie. Il corpo delle donne: le scrittrici denunciano la violenza di genere
Questo articolo, come altri che pubblicheremo, è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste per denunciare la violenza di genere e nominarla. L’iniziativa parte da un appello di Giulia Caminito e Annalisa Camilli