Isalari italiani restano fermi al palo. L’Istat lo conferma: «Le retribuzioni contrattuali in termini reali a settembre 2025 risultano inferiori dell’8,8% rispetto ai livelli registrati a gennaio 2021». L’istituto nazionale di statistica rileva che le retribuzioni monetarie crescono quest’anno più velocemente dei prezzi, con un aumento del +2,9% di quelle pro capite, ma resta ancora un gap da colmare rispetto all’inflazione registrata dopo la pandemia. La decelerazione della dinamica salariale, spiega l’Istat, è causata dalla stabilità nei servizi privati e dal rallentamento nel settore industriale, compensata solo in parte dalla lieve accelerazione nel comparto pubblico, grazie all’erogazione dell’indennità di vacanza contrattuale.
Il segretario della Cgil Maurizio Landini considera proprio i salari e il lavoro stabile le emergenze del Paese: «Per risolvere questi due problemi abbiamo bisogno di una vera riforma fiscale che vada a prendere i soldi dove sono per fare gli investimenti necessari nella sanità, nella scuola, nella giustizia, nelle politiche industriali».
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La Cgil vede nel fiscal drag la ragione principale alla base delle retribuzioni stagnanti. Un rapporto della Fondazione Di Vittorio calcola che i lavoratori dipendenti del settore privato hanno perso nel triennio 2022-2024 quasi 6.400 euro lordi di potere d’acquisto a causa del picco di inflazione. Come riferimento è stata presa una retribuzione media annua lorda di 26.600 euro, il che attesta la perdita a circa duemila euro l’anno.
Questo valore si riduce a 5.505 euro se si considerano gli sgravi fiscali e contributivi. Nello stesso periodo, la dinamica negativa per i lavoratori pubblici ha significato una perdita cumulata pari a circa 5.700 euro. «Il ritardo nei rinnovi contrattuali – si legge nel rapporto della Fondazione del sindacato – rappresenta uno dei fattori strutturali che contribuiscono al divario tra crescita delle retribuzioni e avanzamento dei prezzi nel settore pubblico».
Nel 2024, segnala la ricerca, la quota italiana degli stipendi è pari al 58,3% del Pil, nettamente al di sotto dei principali paesi Ue: la Spagna è al 62%, la Germania al 64,9% e la Francia al 66,9%. Tra il 1960 e il 2022, sottolinea la Fondazione, la quota dei salari sul Pil in Italia è scesa dal 78% al 60%, mentre quella dei profitti è salita dal 22% al 40%.
La crisi finanziaria del 2008, l’emergenza Covid e la crisi energetica dovuta dall’aggressione russa in Ucraina, si legge, hanno accentuato le problematiche salariali presenti in Italia, unico Paese europeo in cui il potere d’acquisto è diminuito rispetto al 1991 con 831 euro in meno, a fronte dei 12.442 in più in Germania e i 10.866 in più in Francia. «Siamo dentro a una vera e propria emergenza salariale», ribadisce Landini che aggiunge: «Aumentare i salari non è solo un elemento di tutela dei lavoratori e del loro potere d’acquisto, ma è anche una politica per far crescere il nostro Paese. C’è bisogno di andare verso un sostegno legislativo al salario e alla contrattazione». La questione salariale rimbalza nei Palazzi alle prese con l’esame della legge di bilancio. La segretaria del Partito democratico Elly Schlein accusa il governo: «Gli italiani stanno peggio e ne siamo profondamente preoccupati. Ma c’è una cosa che ci preoccupa ancora di più: il negazionismo delle difficoltà sempre crescenti degli italiani da parte di Giorgia Meloni».
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Secondo la leader dem, l’esecutivo di centrodestra «invece di mettere in campo misure concrete già in questa quarta legge di bilancio, si crogiola nell’autocelebrazione e in riforme che interessano esclusivamente lei, come quella della magistratura e il premierato».
Anche il rapporto del Censis dà conto dei problemi economici degli italiani: negli ultimi 15 anni la ricchezza delle famiglie è diminuita in termini reali dell’8,5%. E chi ha perso di più è il ceto medio. Il Censis lancia l’allarme sul lavoro: l’incremento di 833 mila occupati registrato nel biennio 2023-2024 è dovuto per l’84% alle persone over 50, un dato che risente della stretta sul pensionamento anticipato e dell’andamento demografico.







