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Non è mai stato solo un monumento o un contenitore culturale Qui si intrecciano malattia e cura, memoria privata e storia collettiva
Siena
Pierluigi Piccini – che non ha bisogno di presentazioni – sfoglia il suo album di fotografie. E ci regala una delle sue perle. Le fotografie ritraggono una delle antiche corsie del Santa Maria della Scala. «La prima volta che ci entrai – scrive Piccini – non sapevo cosa fosse Siena. Ero un bambino, mio padre era già morto, e accompagnammo mia madre a trovare mio nonno, ricoverato lì per una silicosi. Fu operato e rimase diversi giorni. Aveva bisogno di sangue. Mia madre trovò una persona di Piancastagnaio, compatibile, che accettò di donarlo in cambio di un buon pranzo a base di carne in via Stalloreggi. Così funzionava allora la solidarietà: semplice, concreta, umana. Ricordo i letti allineati sotto le grandi volte, gli affreschi possenti che sovrastavano le corsie come una presenza continua, le suore con i cappelloni che si muovevano lente, la caposala, il silenzio interrotto solo dai passi e dai respiri. Quel luogo aveva qualcosa di solenne e insieme quotidiano, come se la sofferenza fosse da secoli parte dell’ordine naturale delle cose. Non avrei mai immaginato che, molti anni dopo, sarei tornato lì da sindaco di Siena. Mi sarebbe toccato guidare il passaggio della proprietà dalla Regione al Comune. Ricordo la cerimonia con Vannino Chiti, il prezzo simbolico di cinquemila lire, e soprattutto la lettera di Antonio Paolucci: parole che ci riempirono di orgoglio, ma soprattutto di responsabilità. Capimmo allora che quel luogo non poteva essere trattato come un bene qualsiasi, perché non lo era mai stato. I lavori iniziarono con risorse minime. Partimmo dalla cappella del Manto, dal pronto soccorso. I degenti camminavano ancora in pigiama mentre i muratori lavoravano. Il Santa Maria continuava a curare mentre si trasformava, tenendo insieme il passato e il futuro nello stesso spazio, senza soluzione di continuità. Ricordo quando accompagnai l’ultima degente, Caterina, al nuovo ospedale di Santa Maria alle Scotte. Il Pellegrinaio era ormai vuoto». Il racconto di Pierluigi Piccini prosegue: «In fondo al grande salone, però, il tavolo di marmo era ancora lì, appoggiato sull’ultima cinta muraria, a raccontare visivamente la crescita secolare dello Spedale, che nel tempo aveva inglobato strade e mura della città. Su quel tavolo era stato composto anche il corpo di Italo Calvino. Ma prima ancora, per secoli, era stato il punto estremo della cura e dell’addio. Prima di tutto questo, però, ci sono state le domeniche mattina passate al Santa Maria con un architetto, alla scoperta degli spazi più nascosti. E c’era stato anni prima il mio ricovero per un’epatite, seguito dal professor Boggiano, durante il quale salvai la vita a un ragazzo che aveva deciso di farla finita tagliandosi le vene. Una paura improvvisa, totale, che ancora oggi sento addosso. Il Santa Maria della Scala, per me, non è mai stato solo un monumento o un contenitore culturale. È un luogo in cui si sono intrecciate, senza mai separarsi davvero, malattia e cura, morte e salvezza, memoria privata e storia collettiva. Un edificio che non ha mai smesso di essere vivo, perché ciò che è accaduto lì continua a passare attraverso le persone, le vite, i ricordi. E continua a parlare a chi sa fermarsi ad ascoltare».





