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Chi ama la letteratura americana non poteva ricevere un regalo di Natale — o di Hanukkah — più bello di The Adventures of Saul Bellow, il documentario trasmesso qualche giorno fa negli Stati Uniti dalla Pbs e dedicato alla vita dello scrittore premio Nobel scomparso nel 2005 a 89 anni. Il regista, l’israeliano Asaf Galay, dopo soli trenta secondi — l’incipit è un montaggio di scene di vita quotidiana a Chicago, ieri e oggi — emoziona subito lo spettatore facendo parlare Salman Rushdie, che con il suo sorriso ironico, la sua gentilezza e la sua sottigliezza fa subito centro, spiegandoci come Bellow sia «il Cristoforo Colombo delle cose a noi vicine, l’esploratore non di mondi lontani ma del mondo che ci circonda, che è una fonte d’ispirazione altrettanto valida».
Così in un’ora e 22 minuti, con mirabile sintesi, Galay ci regala una pepita d’oro dopo l’altra. La vedova, Janis Freedman-Bellow, ultima delle sue 5 mogli, di 42 anni più giovane, madre dell’unica figlia femmina, Naomi Rose, nata quando lui aveva 84 anni, ci accompagna nella casa di campagna dove scriveva in un piccolo capanno nel bosco. Un tavolo, una lampada, una seggiola anni Trenta. Francescano nella sua nudità. «Arrivava qui dopo il caffè del mattino e cominciava a scrivere: si accalorava, sudava, ansimava. Era una fatica fisica, scrivere, per lui. Stare a guardarlo mentre lavorava era una cosa magica».
Ecco poi Martin Amis, professorale e allo stesso tempo affettuoso, che legge un passaggio dalle Avventure di Augie March (Einaudi, in italiano abbiamo per fortuna la meravigliosa traduzione di Vincenzo Mantovani): «Duro, duro lavoro, di scavo e di perforazione, di miniera, aprendo gallerie come talpe, alzando, spingendo, spostando la roccia, lavorando, lavorando, lavorando, lavorando, lavorando, ansimando, tirando, issando. E di questo lavoro nulla è visibile dall’esterno. Si svolge internamente». Amis posa il libro — una bella prima edizione — e sorridendo dice: «È il grande romanzo americano», così, in scioltezza, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Qui il regista cala il suo poker: il documentario è stato girato dal 2016 al 2019, e poi tre anni di postproduzione rallentata dalla pandemia. Nel 2018 Galay ha ottenuto l’ultima intervista con Philip Roth, poco prima della morte. Autopensionato, ormai deciso a non scrivere più dopo una carriera straordinaria, lo scrittore inizialmente aveva detto no alla richiesta del regista, che l’aveva poi convinto con un dialogo da libro di Roth («Quando incontrerà di nuovo il suo amico Bellow gli dirà che si è rifiutato di parlare di lui?»). Roth allora accettò di parlare «per venti minuti», finì per concedere un’ora e mezza di intervista (il sito della Pbs e la pagina YouTube della tv pubblica americana hanno dei meravigliosi outtake scartati dal montaggio del film).
«Saul poteva essere tagliente ma a me non interessava, gli volevo bene», ricorda Roth nel suo studio, di ottimo umore, e riempie di gioia vederlo così (molti pensavano che il pensionamento fosse stato per lui foriero di depressione: qui pare felicissimo, racconta anche una barzelletta bellissima). Ecco poi l’autore di tanti capolavori menzionare il «pellegrinaggio annuale in Vermont» per passare qualche giorno con Bellow e la moglie. «Ne nascono solo tre o quattro in un secolo di scrittori così. Bellow ti mette ko, è una forza della natura… Henry James, Faulkner, Hemingway, Bellow: tutti e quattro hanno fatto progredire il romanzo americano. Sono rimasto segnato, da giovane, dalla sua presenza. Dalla sua prosa. Dalla sua influenza».
Ecco poi i biografi — il discusso James Atlas e il documentatissimo Zachary Leader — e le studiose femministe con le quali Bellow ebbe un rapporto a dir poco complicato. Ecco, Galay lodevolmente non fa agiografia, il ritratto che esce di Bellow è quello di uno scrittore di genio assoluto ma uomo diffidente, a volte arrogante, spesso insensibile, incredibilmente insicuro, donnaiolo e avaro, padre non premurosissimo dei tre figli maschi avuti da tre mogli diverse (il più giovane, Daniel, spiega molto bellowiana-mente che «mia madre stava con Philip Roth. Signor Roth, sono desolato che mio padre le abbia rubato la fidanzata ma altrimenti io non sarei qui»).
La conclusione? Janis che legge Ravelstein, ultimo capolavoro della luminosa vecchiaia del marito, dove il personaggio di Rosamund è chiaramente ispirato a lei — tutti diventavano personaggi di un romanzo, alla fine, nel mondo di Bellow — e non riesce a trattenere le lacrime. Ecco un filmato di Bellow che con in braccio Naomi Rose neonata dice «sono il bisnonno di mia figlia», una battuta che pare un passaggio di Herzog. Verso la fine della sua vita, Bellow guardava le vecchie foto dei parenti scomparsi e diceva di trovare consolante l’idea che li avrebbe rivisti presto.
«Saul non sarebbe stato Saul senza il senso religioso», spiega Amis. «Non so — risponde Roth — da dove arrivassero quei pensieri mistici. Credo che fosse l’amore per la vita a spingerlo a pensare quelle cose. Non riusciva a sopportare che questo miracolo, la vita, potesse finire».
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