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12 Maggio 2024Un esperimento mentale proposto 50 anni fa dal filosofo Robert Nozick anticipò questioni che gli sviluppi tecnologici più recenti pongono ogni giorno in scala ridotta
Nel 1974 il filosofo statunitense Robert Nozick pubblicò uno dei suoi libri più famosi e influenti, Anarchia, stato e utopia, considerato un classico della teoria politica del Novecento e pubblicato più volte anche in Italia dal 1981 in poi. Morto nel 2002, Nozick fu un autore fondamentale per il liberalismo contemporaneo insieme al filosofo statunitense John Rawls. Nel libro sostenne che l’unica forma di stato giustificabile è lo «stato minimo», perché solo interferendo il meno possibile nelle vite dei cittadini è possibile rispettare i loro inalienabili diritti individuali alla vita, alla proprietà e alla libertà.
Anarchia, stato e utopia, che vinse il National Book Award nel 1975, ottenne un successo straordinario per un libro di filosofia. Ma la ragione per cui è citato spesso e per cui Nozick viene studiato anche nei corsi di filosofia della mente, oltre che in quelli di filosofia politica, è un famoso esperimento mentale formulato nel terzo capitolo: la «macchina dell’esperienza». Nozick lo propose per sostenere che la realtà, piacevole o meno che sia, ha per gli esseri umani un valore intrinseco.
Un gruppo di neuropsicologi eccezionali si offre di stimolarci il cervello in modo da farci pensare e sentire come se stessimo scrivendo un grande romanzo, o stringessimo amicizie, o leggessimo un libro interessante. Per tutto il tempo galleggeremmo in una vasca, con elettrodi applicati al cervello. Resteremmo collegati a questa macchina per tutta la vita, pre-programmando le nostre esperienze? […] Naturalmente, mentre siamo nella vasca non sappiamo di essere lì; penseremo che tutto sta accadendo realmente. Anche altri possono collegarsi alla macchina, quindi non c’è alcuna necessità di staccarsene per permettere loro di servirsene.
La domanda posta da Nozick sulla possibilità di scelta tra un rapporto autentico e uno illusorio con la realtà è al centro di decine di romanzi e film di fantascienza. In una scena del film del 1999 Matrix, il più famoso e influente nel suo genere, il personaggio Cypher accetta un patto con gli agenti per tradire il gruppo ribelle di cui fa parte in cambio di un’esistenza artificiale ma appagante nella simulazione in cui vive inconsapevolmente il resto dell’umanità. Una decisione opposta è quella presa per esempio dal protagonista di Vanilla Sky, un altro film sui confini incerti tra la realtà e la simulazione, remake del film spagnolo del 1997 Apri gli occhi. Ma è una lista che potrebbe continuare a lungo.
Da diversi anni lo sviluppo di tecnologie che integrano sensori, visori e altri dispositivi pensati per aumentare il coinvolgimento degli utenti nelle esperienze virtuali rende la domanda di Nozick per diversi aspetti più attuale di quanto lo fosse 50 anni fa. L’ipotesi che descriveva nel libro sembra meno fantascientifica perché il confine tra ciò che è reale e ciò che non lo è diventa ogni giorno sempre più sfumato. E soprattutto perché simulare pezzi di realtà o integrare nella realtà un numero crescente di esperienze virtuali è esattamente l’obiettivo più o meno esplicito di diverse aziende.
Nel 2021, descrivendo il progetto del metaverso a dipendenti e finanziatori, il CEO di Meta Mark Zuckerberg predisse «un’Internet incarnata in cui sarai parte dell’esperienza, non un semplice osservatore»: aspettative al momento contraddette dal fatto che il metaverso sia un universo spopolato. Fatto sta che molti aspetti della contemporaneità ripropongono in varie forme e diversi gradi di complessità l’esperimento della macchina dell’esperienza, che si tratti di metaverso, social media, video deepfake o interazioni con personaggi virtuali e chatbot sostituti di partner e persone defunte.
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Nozick era convinto che la maggior parte delle persone, avendo la possibilità di scegliere e programmare nel migliore dei modi un’esistenza artificiale, preferirebbe comunque la realtà: per tre ragioni principali. La prima è che «vogliamo fare certe cose, e non soltanto avere l’esperienza di farle». La seconda è che «vogliamo essere in un certo modo, essere un certo tipo di persona», e galleggiare in una vasca significherebbe invece essere qualcosa di indeterminato. «Non c’è risposta alla domanda su come sia una persona che è stata a lungo nella vasca. È coraggiosa, gentile, intelligente, spiritosa, affettuosa? Non si tratta semplicemente della difficoltà di dirlo: quella persona non è niente. Collegarsi alla macchina è una specie di suicidio», scrisse Nozick.
La terza ragione è che scegliere di collegarsi a una macchina dell’esperienza vorrebbe dire accettare una realtà costruita da esseri umani e, in un certo senso, farsela bastare. Implicherebbe cioè la rinuncia alla ricerca di un significato o di un obiettivo nella nostra vita, e quindi precludersi un «contatto vero con una qualsiasi realtà più profonda, per quanto se ne possa simulare l’esperienza». È un argomento che ha a che fare in parte con il tempo e il luogo in cui Nozick, che insegnava a Harvard, scrisse Anarchia, stato e utopia: l’inizio degli anni Settanta e la California (Nozick scrisse gran parte del libro tra il 1971 e il 1972, durante un anno sabbatico al Center for Advanced Study in the Behavioral Sciences, a Palo Alto). All’epoca, prima della loro prolungata stigmatizzazione sociale e della successiva riscoperta, le sostanze psichedeliche e lo studio delle loro possibili applicazioni esercitarono un fascino profondo nella Silicon Valley.
La possibilità di un contatto profondo con la realtà, desiderio largamente condiviso dall’umanità secondo Nozick, era una questione centrale ma divisiva nel dibattito sulle sostanze stupefacenti. Alcune persone ne criticavano l’uso perché le consideravano appunto una specie di «macchine dell’esperienza locali», nella misura in cui offrivano un’esperienza alternativa della realtà e quindi non autentica. Altre persone le consideravano al contrario «la strada maestra verso una realtà più profonda», scrisse Nozick, segnalando il paradosso per cui ciò che «per alcuni è una resa alla macchina dell’esperienza, per altri significa lasciarsi guidare da una delle ragioni per non arrendersi» alla macchina dell’esperienza.
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La ricerca di un significato e uno scopo nella vita attraverso il contatto con una realtà trascendente, considerata da Nozick una delle tre ragioni del rifiuto umano di un’esistenza artificiale, è anche alla base delle dottrine religiose tradizionali, che divergono soltanto riguardo al «punto di contatto» con quella realtà trascendente. Per alcune persone quel contatto conduce all’eterna beatitudine o al nirvana: dimensioni che in un certo senso somigliano a un soggiorno prolungato in una macchina dell’esperienza. Altre pensano che sia «intrinsecamente desiderabile fare la volontà di un essere superiore che ci ha creati», anche se presumibilmente «nessuno lo penserebbe se scoprissimo di essere stati creati come oggetto di trastullo da qualche bambino ultrapotente proveniente da un’altra galassia o dimensione».
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Secondo Nozick le ragioni per cui gli esseri umani rifiuterebbero la macchina dell’esperienza prescindono dai limiti della macchina. È possibile immaginare innumerevoli tecnologie, anche migliori di quelle attuali, in grado di ricreare esperienze particolari o parti specifiche della realtà in un modo che le renda indistinguibili dalla realtà stessa. Ma indipendentemente dal fatto che certi limiti tecnologici siano superabili o meno, l’aspetto delle macchine per noi più inquietante, scrisse, «è il loro vivere la nostra vita al nostro posto». Cercare funzioni aggiuntive particolari è fuorviante perché «quello che desideriamo è vivere (verbo attivo) noi stessi, a contatto con la realtà. E questo, le macchine non possono farlo per noi».
Cinquant’anni dopo la pubblicazione del libro, a fronte di un utilizzo sempre più capillare e diffuso di tecnologie che permettono di fare esperienze virtuali, la convinzione di Nozick tende ad apparire almeno in parte infondata. Nel 2021, riprendendo argomenti piuttosto popolari, l’analista Yuval Levin associò ai social media una crescente avversione della popolazione statunitense all’azione, al rischio e all’intraprendenza. Attribuì ai social la responsabilità di «aver trasformato ampie aree della nostra vita personale in piattaforme per performance di pseudo-celebrità, in cui mostriamo noi stessi e osserviamo gli altri senza realmente connetterci», e in cui privilegiamo «l’espressione rispetto all’azione, in modi che hanno mutilato le nostre culture civiche e politiche».
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Per uno studio pubblicato nel 2017 sulla rivista Philosophical Psychology due professori di filosofia ed epistemologia dell’università di Groningen e della Sorbona, Frank Hindriks e Igor Douven, reclutarono circa 250 persone a cui sottoporre l’esperimento mentale originale di Nozick. Scoprirono che circa il 70 per cento di loro avrebbe effettivamente rifiutato l’offerta di un’esistenza prodotta da una macchina dell’esperienza, per quanto personalizzabile. Ma per individuare eventuali sfumature nei desideri dei partecipanti Hindriks e Douven ampliarono lo studio proponendo due domande aggiuntive.
Una domanda esaminava la disponibilità ad assumere ogni giorno una «pillola dell’esperienza», che permette di avere esperienze quasi esclusivamente piacevoli per il resto della vita. Un’altra domanda esaminava la disponibilità ad assumere ogni giorno una «pillola delle funzioni», che migliora le capacità di chi la assume senza alterare la sua percezione della realtà. Entrambi i casi prevedevano quindi un contatto cosciente con la realtà: una differenza sostanziale rispetto all’esperimento mentale di Nozick.
Le risposte alla prima domanda mostrarono che il 53 per cento dei partecipanti avrebbe accettato la pillola dell’esperienza. E ancora più alta fu la percentuale di persone che avrebbero assunto la pillola delle funzioni: l’89 per cento. Hindriks e Douven attribuirono questa maggiore propensione a prendere le pillole che a collegarsi alla macchina dell’esperienza a un fattore da loro definito «intuizione di autenticità», cioè la tendenza delle persone a vivere la loro vita mantenendo comunque un contatto con ciò che considerano realtà, indipendentemente da quanto sia o non sia piacevole.
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Lo studio di Hindriks e Douven suggerisce che la risposta delle persone all’offerta di una macchina dell’esperienza cambia a seconda delle particolari variabili aggiunte all’esperimento. Oltre alla consapevolezza di mantenere una qualche forma di contatto con la realtà, un’altra condizione rilevante per accettare la proposta secondo il neurologo e divulgatore statunitense Steven Novella sarebbe probabilmente la consapevolezza che altre persone reali vivono nella macchina (possibilità peraltro ammessa dallo stesso Nozick).
La condivisione di un ambiente virtuale comune è del resto una delle principali ragioni dell’attuale successo dei videogiochi multiplayer online, per esempio: comunità in cui di fatto moltissime persone trascorrono giorni, settimane o addirittura mesi. E lo stesso discorso vale per le comunità virtuali sui social media. Questo perché gli ambienti resi possibili dagli sviluppi delle tecnologie digitali presentano una serie di condizioni fondamentali che li differenziano da quello che Novella definisce lo scenario peggiore, inaccettabile nella maggior parte dei casi: «sapere di essere in una realtà virtuale e di essere solo con nient’altro che l’intelligenza artificiale».
La popolarità degli ambienti virtuali indica che se invece le persone sanno di essere in un mondo virtuale, e che quel mondo è popolato da persone reali ed è connesso a un mondo reale, allora la maggioranza di loro trova non soltanto accettabile ma anche soddisfacente vivere parti molto estese della vita in quegli ambienti. Ed è probabile che in futuro costruiremo realtà virtuali sempre più sofisticate e avvincenti, ha scritto Novella, ma che saranno perfettamente integrate nel mondo fisico, e quindi considerate non un’illusione della realtà ma parte di essa.
Le reazioni e l’adattamento delle persone agli ambienti virtuali indicano che man mano che le piattaforme diventano più coinvolgenti non modificano tanto la disponibilità a rinunciare alla realtà, possibilità esclusa da Nozick, quanto la relazione stessa con il concetto di realtà. Anche tralasciando i casi rari ed estremi di persone appagate da relazioni romantiche con personaggi virtuali, sono comunque moltissime quelle che attraverso smartphone e altri dispositivi hanno per gran parte della giornata un’esperienza della realtà mediata: realtà peraltro spesso personalizzata da un algoritmo in grado di adattarla alla concezione del mondo preferita dell’utente.
Le osservazioni di Hindriks, Douven e altri studiosi inducono a concludere che il modo in cui rispondiamo all’esperimento mentale potrebbe cambiare nel tempo. Come ha detto a BBC Dan Weijers, professore di filosofia alla University of Waikato, in Nuova Zelanda, «man mano che acquisiamo maggiore familiarità con la tecnologia, e in particolare con quella virtuale, ci preoccuperemo sempre meno che qualcosa sia virtuale piuttosto che non virtuale». Vale a dire che le persone finiranno probabilmente per prendere sempre più spesso decisioni simili a quella presa dal personaggio Cypher in Matrix, e senza bisogno di chiedere come lui la cancellazione della memoria.
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