
Una città piena di sveglie che suonano: il problema non è chi le accende, ma chi non si alza
2 Dicembre 2025

Peter Sloterdijk
Vorrei ringraziare il sindaco di Siena per aver introdotto un tema di straordinaria attualità. Commentando le installazioni luminose natalizie, ha parlato di sfere. Ha usato parole come sacro, perfezione, speranza. Retorica natalizia, certo. Ma c’è un’intuizione che merita di essere raccolta: ha detto “sfere”, non “luci” o “decorazioni”. Ha nominato una forma.
Devo scusarmi in anticipo: quando sento parlare di sfere, non riesco a trattenermi. Scatta un riflesso involontario che mi porta dritto a Peter Sloterdijk e alla sua monumentale trilogia. È più forte di me.
Peter Sloterdijk ha dedicato tre volumi monumentali, quasi tremila pagine, a dimostrare che le sfere non sono metafore. Sono il modo in cui gli esseri umani costruiscono lo spazio abitabile. La sferologia non è una teoria simbolica ma una morfologia dell’esistenza: noi viviamo sempre dentro qualcosa, protetti da involucri, avvolti in climi artificiali, immersi in atmosfere condivise. La sfera è la forma primaria dell’essere-con.
Nel primo volume, Bolle, Sloterdijk parte dall’intimità: la coppia madre-bambino, l’utero come prima sfera, la bolla d’aria che circonda due amanti. Le sfere microscopiche sono relazioni che generano interni, spazi caldi dove è possibile esistere. Non sono contenitori preesistenti ma risultati di un lavoro incessante: per abitare bisogna costruire climi, protezioni, membrane che separano un dentro da un fuori ostile.
Il secondo volume, Globi, racconta come queste microsfere si siano ampliate nella storia: dalle cosmologie antiche che immaginavano il cosmo come sfera perfetta, alle cattedrali gotiche che costruivano interni celesti, fino alla globalizzazione che ha preteso di racchiudere l’intero pianeta in un’unica grande sfera trasparente. Ma questa sfera è esplosa. La modernità ha scoperto che non esiste un grande involucro protettivo, nessun cielo che ci tiene al caldo. Siamo esposti.
Il terzo volume, Schiume, descrive la condizione presente: viviamo in una pluralità di celle separate, appartamenti isolati, bolle individuali che galleggiano una accanto all’altra senza mai toccarsi davvero. La schiuma è fatta di pareti sottili, climatizzazioni private, esistenze compartimentate. Ognuno nella propria sfera, ognuno con il proprio termostato.
Le sfere luminose appese nelle strade di Siena stanno dove, in questa morfologia? Non costruiscono interni, non proteggono nessuno dalla pioggia che, come ha notato il sindaco, ha rovinato la giornata. Sono superfici senza spessore, involucri vuoti. Non generano calore condiviso ma solo effetto visivo per consumatori di passaggio. Sono la forma finale della schiuma: decorazione che simula l’intimità senza produrla.
Eppure il gesto di nominarle come “sfere” apre una possibilità. Perché se prendiamo sul serio la sferologia, la domanda diventa: quali spazi abitabili stiamo costruendo? Quali interni caldi? Quali atmosfere condivise? La politica culturale, se vuole essere qualcosa di più che decorazione stagionale, deve farsi carico di questa domanda. Non basta appendere involucri luminosi, bisogna costruire climi in cui sia possibile stare insieme, respirare la stessa aria, condividere il calore.
Sloterdijk ci ricorda che siamo animali sferici: abbiamo bisogno di involucri, protezioni, membrane che ci separino dal freddo esterno. Ma questi involucri non sono dati, vanno costruiti. Ogni volta. Con cura. Le sfere vere richiedono lavoro, manutenzione, energia. Richiedono che qualcuno si prenda la responsabilità di tenere in piedi l’interno, di garantire che l’aria continui a circolare, che la temperatura resti vivibile.
La domanda che quelle sfere natalizie lasciano aperta è questa: siamo ancora capaci di costruire sfere autentiche? Oppure ci accontentiamo di simulacri luminosi che brillano per qualche settimana e poi vengono smontati, lasciandoci di nuovo esposti al freddo, ognuno nella propria cella di schiuma, senza più sapere come si fa a stare insieme al caldo?





