laura anello
È un giallo che si sviluppa lungo sette ore. Dalle 22 di sabato 25 – quando l’imbarcazione partita da Smirne, in Turchia, viene avvistata da un aereo dell’agenzia Frontex – alle 5 del mattino successivo, quando un pescatore che si accingeva a gettare la lenza sulla spiaggia di Steccato di Cutro, vicino a Crotone, vede davanti a suoi occhi l’inimmaginabile e dà l’allarme. Il mare non è pieno di pesci, ma di cadaveri di adulti e di bambini. Durante queste sette ore la macchina dei soccorsi si muove, si agita, gira a vuoto, senza centrare l’obiettivo primario: salvare quel barcone fradicio pieno di famiglie che è in balia delle onde. Com’è possibile che una carretta del mare avvistata, segnalata, a rischio di affondamento, arrivi a cento metri dalla costa senza che nessuno riesca a raggiungerla prima? E com’è possibile che quel barcone si schianti davanti ai soli occhi di un pescatore, mentre le forze dell’ordine arrivano dopo? Eppure quel caicco di legno non era un miraggio, non era una fata morgana. C’era, e lo sapevano tutti dalle 22 della sera precedente.
«Stiamo vedendo di ricostruire la catena dei soccorsi, dall’avvistamento in poi, ma non ci sono indagini su questo», ha detto ieri il procuratore della Repubblica di Crotone, Giuseppe Capoccia, che indaga sul naufragio. Domenica sera era presente anche lui alla riunione convocata in prefettura a Crotone dal ministro Piantedosi, insieme con il presidente della Regione Roberto Occhiuto e il comandante generale della Guardia di finanza, Giuseppe Zafarana. Facce scure, sguardi contriti, il peso di una sconfitta sulle spalle. Ma che cosa è successo?
I fatti dicono che alle 22 di sabato 25 l’aereo di Frontex – l’agenzia europea che ha come compito la protezione delle frontiere degli Stati membri – segnala alle autorità italiane l’imbarcazione a circa quaranta miglia, 75 chilometri, dalla costa di Crotone. Non spetta a Frontex intervenire e soccorrere, non è il suo mestiere: segnala il barcone perché è presumibilmente impegnato nel traffico di migranti. A quel punto la palla passa all’Italia, e ad attivarsi sono due unità di soccorso marittimo della Guardia di finanza, e precisamente la vedetta V 5006 della sezione operativa navale di Crotone, e il pattugliatore veloce P.V.6 Barbarisi del gruppo aeronavale di Taranto.
Non sappiamo – questo lo chiariranno le indagini – a che ora le due imbarcazioni di soccorso si muovano, per quanto stiano in mare e quando rientrino nei rispettivi ormeggi. Di sicuro è che rientrano, considerando le condizioni del mare proibitive. Che è dato tra forza 3 e forza 4, cioè da mosso a molto mosso, con onde cioè che vanno da un metro e mezzo a due e mezzo. Ma il meteo peggiora di ora in ora, e gli uomini delle fiamme gialle non riescono a individuare il barcone.
A questo punto non si sa che ora sia. Ma di certo c’è che la situazione a quel punto è da allarme rosso: perché c’è un natante di legno carico di umanità in mezzo a un mare che è pericoloso anche per i mezzi di soccorso. E dov’è esattamente non lo sa più nessuno. Che cosa dovrebbe accadere in questi casi? Secondo Gianfranco Schiavone, uno dei più autorevoli studiosi di diritto dell’immigrazione, «le dichiarazioni fatte finora sono sbrigative in modo offensivo, come di chi vuole chiudere la vicenda il prima possibile. È evidente che di sicuro tutto quello che si poteva fare non è stato fatto. Perché se una piccola vedetta non riesce ad affrontare un mare in condizioni difficili, serve disporre una ricognizione aerea o mandare una nave di dimensioni più grandi, seppure più lenta».
Invece a questo punto le forze di soccorso marittime gettano la spugna, si presume nella speranza che quel barcone diretto verso la lunga costa sabbiosa ce la possa fare da solo. Anche questa volta non si sa quanto tempo duri questa speranza che ormai ha i contorni del conto alla rovescia, o peggio di un tiro di dadi. Dove si trova questa barca? Dov’è finita? E soprattutto, ce la farà ad approdare? Fonti della guardia di finanza di Crotone dicono che a quel punto vengono attivate «pattuglie a terra lungo tutte le direttrici di probabile contatto costiero e conseguente sbarco dei migranti, coinvolgendo anche le altre forze di polizia che attivamente partecipano alle ricerche». Ma è come cercare un ago nel pagliaio.
Il silenzio – un silenzio carico di tensione e impotenza, immaginiamo – viene spezzato alle 4 del mattino da una telefonata che giunge al reparto operativo aeronavale della guardia di finanza di Vibo Valentia. È una chiamata allarmata, in un inglese incerto. Non parla di un incidente, balbetta, chiede aiuto. Secondo le testimonianze dei sopravvissuti, quella è l’ora in cui il barcone avrebbe avvistato le luci della costa e i trafficanti – forse temendo di essere localizzati – avrebbero gettato almeno venti persone in mare per alleggerire il carico e allontanarsi rapidamente. Le ricostruzioni ufficiali dicono che la centrale operativa, pur non capendo bene la voce, intuisce che cosa può essere successo e allerta le forze dell’ordine (che in realtà a quel punto dovrebbero essere più che allertate).
Fatto sta che alle cinque del mattino il naufragio su una secca a cento metri sulla spiaggia si consuma davanti agli occhi del solo pescatore. È lui a chiamare i soccorsi.