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Da oltre un secolo la modernità convive con un sospetto persistente: l’io non coincide mai del tutto con se stesso. La letteratura lo ha intuito prima della filosofia, e la psicoanalisi ne ha fatto il proprio terreno di indagine privilegiato. Eppure, secondo Pierre Bayard, questa consapevolezza è rimasta a metà strada, come se non si fosse avuto il coraggio di trarne tutte le conseguenze.
Nel suo ultimo libro, Je sommes plusieurs. Essai sur les personnalités multiples, Bayard rilancia la questione in modo radicale. Non siamo individui unitari attraversati da conflitti interiori, ma luoghi abitati da più soggetti distinti. Non un io che si frantuma sotto la pressione delle pulsioni, bensì una pluralità originaria di persone che coesistono nello stesso corpo, ciascuna con il proprio modo di pensare, di sentire, di parlare e di agire.
Questa prospettiva segna una distanza netta dalla psicoanalisi classica. Là dove Freud descriveva un io diviso, lacerato tra istanze contrapposte, Bayard propone di spostare lo sguardo: non c’è un centro che si spezza, ma una molteplicità che precede ogni idea di unità. In fondo, osserva, lo stesso Freud sembrava avvicinarsi a questa intuizione negli ultimi anni, quando parlava di Ichspaltung, di clivaggio dell’io. Bayard non fa che portare fino in fondo quel movimento incompiuto.
Ma la posta in gioco non è soltanto teorica. Accettare l’idea di una soggettività plurale significa rivedere il modo in cui interpretiamo le relazioni, la continuità biografica, persino la responsabilità personale. A chi non è mai capitato di avere l’impressione, parlando con qualcuno, di trovarsi davanti a una persona radicalmente diversa da quella incontrata pochi giorni prima? Non un semplice cambio d’umore, ma una trasformazione più profonda, come se l’interlocutore fosse diventato letteralmente un altro.
È proprio questa esperienza, comune e al tempo stesso raramente tematizzata, che Bayard invita a prendere sul serio. Un riferimento inevitabile è il celebre caso clinico di Sybil, seguito negli anni Settanta dalla psicoanalista americana Cornelia Wilbur. Durante la terapia emerse che Sybil non manifestava soltanto comportamenti contraddittori, ma lasciava affiorare personalità differenti, fino a sedici, ciascuna dotata di tratti, gusti e modalità espressive proprie, inclusi soggetti maschili. Al di là delle controversie che quel caso ha sollevato, Bayard ne sottolinea soprattutto il valore simbolico.
Il successo enorme del libro e del film ispirati alla storia di Sybil non fu uno scandalo, ma qualcosa di più sottile. Molti lettori e spettatori vi si riconobbero, provando una sorta di sollievo. Dare un nome a un’esperienza psichica significa sottrarla all’isolamento. Quando una condizione viene nominata, smette di essere vissuta come un segno di follia individuale e diventa qualcosa di condivisibile. In questo senso, l’idea di personalità multipla ha avuto una funzione quasi terapeutica: ha permesso a molte persone di riconoscersi senza sentirsi sole o anormali.
Non sorprende allora che il disturbo della personalità multipla, oggi definito disturbo dissociativo dell’identità, sia entrato nel DSM, il manuale di riferimento della psichiatria internazionale, accanto a patologie più note. Per Bayard, questa inclusione non va letta solo in chiave clinica, ma come il segnale di una trasformazione culturale più ampia nel modo di pensare l’identità.
La sua proposta non invita a moltiplicare le diagnosi né a dissolvere l’idea di soggetto, ma a ripensarla. Forse l’egocentrismo nasce proprio dall’illusione di essere uno solo. Riconoscersi plurali non significa perdersi, ma accettare la complessità che ci costituisce. Non “io”, ma “noi”: una grammatica diversa dell’esistenza, in cui il conflitto interiore smette di essere una patologia da correggere e diventa una condizione umana da abitare.





