C’è un non detto nella crisi politica in atto, un pensiero sottostante, una paura strisciante che nessuno esplicita perché tutti la danno per scontata, ovvia. L’idea è che quando c’è una crisi di governo o, peggio, lo scioglimento delle camere la macchina dello stato si ferma. Per mesi. E questo fa evocare l’apocalisse, soprattutto in momenti di drammatiche emergenze come l’attuale. L’esperienza insegna che questo timore è solidamente radicato nella realtà ed è perciò uno dei propellenti dell’intonazione mistica di certi appelli a Mario Draghi perché non abbandoni l’Italia al suo destino ramingo.
RIMETTI A NOI IL NOSTRO PNRR
Lasciamo da parte le ragioni squisitamente politiche che fanno propendere i diversi partiti per il voto, per la prosecuzione del governo o che fanno temere un risultato elettorale piuttosto che un altro. Ciò che illumina un carattere permanente dello spirito pubblico nazionale sono gli argomenti con cui i sostenitori del presidente del Consiglio supportano le proprie invocazioni. Sono scesi in campo sindaci, presidenti di regione, rettori di università, imprenditori, sindacalisti e anche intellettuali a briglia sciolta. L’argomento che non manca mai nelle loro preghiere è il Pnrr, cioè il salvifico Piano nazionale di ripresa e resilienza. Temono che una crisi di governo o le elezioni anticipate mettano a rischio la tranche di finanziamenti del 2022, 22 miliardi.
Facciamo un esempio. Ferruccio Resta, presidente della conferenza dei rettori delle Università, parla a nome degli studenti, e chiede a Draghi di restare perché «a loro dobbiamo restituire la fiducia nel futuro». Come, concretamente, portare la legislatura alla scadenza naturale di marzo possa incentivare l’ottimismo dei giovani Resta lo spiega nella sua accorata missiva. Sostiene che, grazie al Pnrr e alla magistrale regia di Draghi, «stiamo lavorando per aumentare il diritto allo studio, per rimettere in ordine i percorsi di carriera accademica, per ridurre il divario di genere e quello geografico e sociale, per impegnare la ricerca verso le grandi sfide tecnologiche e ambientali, per renderla più permeabile e vicina ai bisogni di innovazione delle imprese e della società». L’università italiana sta diventando finalmente ciò che dovrebbe essere, dice Resta, e questo grazie al clima politico miracoloso determinato da Draghi.
Il ragionamento del presidente dei rettori risulterebbe più convincente se corrispondesse alla realtà. Lasciamo da parte il fatto che questo governo è nato in un clima emergenziale e quindi non ha mai avuto nel suo programma lo scioglimento dei grandi nodi politici: uno per tutti, la redistribuzione del carico fiscale tra ricchi e poveri, tema sul quale la maggioranza “non politica” ha orientamenti disparati. Occupiamoci del tema illuminante posto da Resta: la ventata riformatrice del governo Draghi è tutta nel Pnrr, che si articola in centinaia di progetti finanziati a debito che promettono un’’Italia migliore, dalla mobilità sostenibile alla digitalizzazione della pubblica amministrazione, da una giustizia più efficiente a un’università più moderna, fino alla riqualificazione dell’aeroporto di Ferrara.
Ma il Pnrr è ormai quasi esclusivamente una pratica amministrativa. Niente impedirebbe all’amministrazione statale, anche col governo dimissionario e il parlamento sciolto, di portare avanti il lavoro con la stessa rapidità ed efficacia dimostrate finora, quali che siano.
Se il presidente Sergio Mattarella si rassegnasse a sciogliere le camere, il governo Draghi rimarrebbe in carica presumibilmente fino a metà novembre «per il disbrigo degli affari correnti». A parte il varo di disegni di legge ma dal divieto sono esclusi quelli imposti da obblighi internazionali), potrebbe continuare a fare praticamente tutto ciò che ha fatto finora, compresi i decreti necessari e urgenti per i quali la Costituzione prevede addirittura la convocazione delle camere sciolte per la conversione in legge. Il sistema istituzionale non prevede il vuoto di potere. Nel 2018 Mattarella aveva sciolto le camere il 28 dicembre e il nuovo governo Conte ha giurato il 1 giugno. In quei sei mesi il paese è stato retto dal governo Gentiloni.
LA REALTÀ TACIUTA
Perché dunque considerare una iattura in sé lo scioglimento delle camere, visto che il quadro politico di sostegno al governo è comunque irreversibilmente sfilacciato per giudizio dello stesso presidente del Consiglio? Qui c’è il non detto. La classe dirigente italiana ha interiorizzato negli anni un deprecabile, e per questo inespresso, dato di realtà che potremmo definire una tacita prassi costituzionale.
Nel momento in cui il presidente della Repubblica scioglie le camere i primi a tagliare la corda sono i ministri (non tutti, naturalmente, ma quasi), che smettono di frequentare il ministero per dedicarsi alla campagna elettorale oppure, nei casi peggiori, usano ruolo e ufficio per l’attività di propaganda. A ruota si dissolvono gli alti burocrati (non tutti, naturalmente), a partire dai capi di gabinetto, i cui incarichi cessano col governo, per proseguire coi dirigenti che al cambio dell’esecutivo sono sottoposti al cosiddetto spoil system.
Mentre i ministri sono occupati nella campagna elettorale i burocrati sono impegnati a progettare il proprio futuro, cioè il prossimo incarico. Un lavoro estenuante che parte dal capire come gira il vento elettorale e si dipana poi in una ragnatela di incontri per lubrificare il rapporto con i vincenti pronosticati. Un antico costume che già fu descritto in modo impareggiabile dal democristiano Nino Andreatta nel 1994 (quando Silvio Berlusconi portò per la prima volta al governo i post-fascisti di An), osservando divertito i dirigenti statali che andavano in giro a vantarsi di un nonno fascistissimo combattente nella battaglia del lago Tana.
Nella comune esperienza della classe dirigente, in caso di crisi nessun ministero dà più nessuna risposta, nessuno firma più niente, e se uno prova a chiedere viene guardato come un matto: «Ma non lo sa che non c’è più il governo?». Nessuno si aspetta che in caso di crisi di governo la macchina dello stato continui a funzionare al suo ritmo consueto, come dovrebbe e potrebbe. Per questo fanno tanta paura le elezioni.