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Vita, opere, intuizioni e (molte) contraddizioni della scrittrice-filosofa che segnò un’epoca
C’è una foto di Susan Sontag (1933-2004) poco più che trentenne, che spiega molto del suo fascino e del suo mito nonché dell’America che rese l’uno e l’altro possibili. È stata scattata nel 1965 al ristorante «Elaine’s» nell’Upper East Side di New York, il cui livello culinario era inversamente proporzionale al suo status mondano: non ci si andava per mangiare, malissimo, appunto, ma per essere visti. Nella prima sala Elaine Kaufman, la proprietaria, riservava i tavoli rotondi vicino all’entrata in base all’importanza culturale dei clienti, stabilita secondo il suo metro di giudizio: una seconda sala, sul retro, chiamata Siberia per la scomodità e la temperatura, era lasciata ai turisti, ai curiosi, alla gente comune… Al tavolo con Susan ci sono Leonard Bernstein, Richard Avedon, William Styron, Sybil Burton e Jacqueline Kennedy. Come riassume Benjamin Moser nel suo Sontag. Una vita (Rizzoli, pagg. 698, euro 32; trad. Rosa Prencipe e Lucilla Rodinò): «Erano la Casa Bianca e la Fifth Avenue, Hollywood e Vogue, la New York Philharmonic e il Premio Pulitzer» e insomma, «la cerchia più glamour che potesse esistere negli Stati Uniti, e nel mondo. Una cerchia di cui Sontag avrebbe fatto parte per il resto della vita».
Soprannominata «Miss Librarian», signorina Bibliotecaria per la sua passione per i libri e il suo far parte del mondo accademico, un marito professore universitario alla spalle, dal quale ancora diciannovenne aveva avuto un figlio, un romanzo e molti saggi e articoli all’attivo pubblicati sulle riviste più cool dell’epoca, un interesse per quella che allora veniva considerata «cultura bassa», nuovi stili, nuove mode, la strada e l’underground, il cinema e la musica sperimentale, l’arte d’avanguardia e la fotografia come metafora e non come immagine, Susan si impose sin da subito per quel combinato disposto che univa un’avvenenza fisica del tutto particolare, da «principe delle tenebre» o da «moschettiere», la definisce il suo biografo, con tanto di camperos, scialli, giacche di pelle e cappottoni, alla «mente di un filosofo europeo», più Atena, insomma che Afrodite. Sempre di suo ci aggiunse una tendenza all’astratto a scapito del concreto che farà coniare a Herbert Marcuse una folgorante definizione: «È capace di ricavare una teoria da uno sbucciapatate».
Per quanto quella di Moser sia una biografia simpatetica, l’immagine che alla fine emerge è più di una virago, se non di un’arpia, che non di una donna libera e indipendente, interessata soprattutto alla costruzione di una personale mitologia, desiderosa sempre e comunque di esserci, senza troppo preoccuparsi del perché e in nome di cosa…
Il conformismo dell’anticonformismo è una caratteristica intellettuale non solo italiana, talmente evidente di per sé da non aver bisogno di troppe spiegazioni, il credersi e/o sentirsi rivoluzionari e/o all’opposizione restando però ben al caldo delle istituzioni culturali, premi, cattedre, collaborazioni, del potere che conta, economico, politico, editoriale… Negli Stati Uniti questo modo di essere veniva decuplicato per mille, una sorta di eccesso nel successo, complice un capitalismo fiero d’esser tale e un modello di vita che alla dignità della sconfitta oppone sempre e comunque l’orgoglio della vittoria. Intellettuale allo stato puro, la Sontag fu incline più alla pedanteria che alla sensibilità riguardo le cose, gli avvenimenti, la vita: lunghe spiegazioni accademiche lì dove, riassume Moser riportando i giudizi di chi la conobbe, «sarebbero bastati gli occhi e le orecchie». Nel suo primo viaggio a Parigi, quando infuriava la guerra d’Algeria, c’era la legge marziale in Francia e si prospettava un golpe militare, non si accorse di nulla, non si interessò a niente: «Rimasi rinchiusa in un ambiente che era in sé un ambiente di stranieri. Ma sentivo la città». L’udito del sordo, viene da dire. Nella Cuba castrista, si accorse soprattutto che mancavano i tappeti e che c’era un pessimo gusto per gli abiti femminili; il suo primo e unico reportage dal Vietnam è pieno di affermazioni «supportate nient’altro che dalla parola sinceramente» persino riguardo «il benessere delle centinaia di piloti americani prigionieri che i vietnamiti del Nord hanno a cuore».
A lungo la sua fu una visione del mondo come fenomeno estetico, senza nessun impatto politico, ideologico, in seguito sarà l’esatto opposto, ma entrambe le posizioni vennero sempre e comunque teorizzate con assoluta iattanza. Era «un’atleta dell’esibizione» Susan, e ciò che la interessava era la realizzazione di sé stessa come personaggio. Alla violenza verbale – «la razza bianca è il cancro della storia umana», per fare un solo esempio – si univa la fumosità di concetti: nella generazione americana degli anni Sessanta intravvide «una profonda concordanza tra la rivoluzione sessuale ridefinita, e la rivoluzione politica, ridefinita» e in quel participio passato ripetuto c’è solo supponenza senza significato.
Anche le sue posizioni sull’arte, risultano discutibili. L’arte più interessante del nostro tempo, osservava, «deve essere noiosa. Non dovremo più aspettarci che l’arte ci intrattenga o ci distragga. Per lo meno, non la grande arte». L’avrebbe voluta però anche sovversiva, e la noia accoppiata alla sovversione probabilmente era il suo ideale estetico, salvo poi accorgersi che nel giro di vent’anni «quella grande arte modernista era perfettamente compatibile con la società consumista». Senza inutili contorcimenti mentali e verbali, Andy Warhol l’aveva avuto chiaro sin dall’inizio: modernismo e consumismo sono fratelli siamesi.
Basata sugli archivi privati della scrittrice, oltre che su centinaia di interviste realizzate dall’autore, Sontag. Una vita è anche un’esplorazione intima di un ego tanto combattuto quanto irrisolto, dove l’elemento prevalente risulta il «mettersi in posa», ovvero «il divario non solo tra la persona che è e quella che gli altri percepiscono, ma anche, più acuto, tra sé stessa e una forza superiore che veglia su di lei». Anche la sua sessualità ne fa parte, perché la Sontag fu un’omosessuale riluttante nell’ammetterlo, quanto pronta a trasformare quella riluttanza in difesa della propria vocazione di scrittrice: «Ho bisogno di questa identità come di un’arma, da contrapporre all’arma che la società usa contro di me. Essere omosessuale mi fa sentire più vulnerabile. Accresce il mio desiderio di nascondermi, di essere invisibile che comunque ho sempre provato». E infatti sarà uno dei personaggi pubblici più fotografati e più ingombranti, quanto a prese di posizione, del suo tempo.
In questo groviglio di contraddizioni, ne spiccano ancora almeno un paio. Portabandiera del modernismo, nell’arte come in letteratura, il culmine della sua carriera di scrittrice sarà un romanzo di stampo ottocentesco, L’amante del vulcano, non memorabile, per la verità. Dopo aver teorizzato che «la fotografia è essenzialmente un atto di non intervento» portò la fotografa Annie Leibovitz a Sarajevo per sostenere la causa bosniaca nella quale si era così identificata da negare il diritto di parlarne a chi non fosse stato, come dire, sul campo, il che equivale a mettere la pietra tombale su ogni riflessione degna di questo nome. Sua è anche quella definizione del comunismo come «un fascismo dal volto umano» che provocherà l’ironico commento di Isaiah Berlin: «Sul volto non giurerei».
Eppure, all’indomani dell’attacco alle Torri gemelle del 2001, sarà una delle pochissime voci controcorrente nell’isterismo bellicista da esso provocato. «Non è un attacco codardo alla civiltà, alla libertà, all’umanità e al mondo libero» scrisse. «È un attacco alla sedicente superpotenza mondiale, intrapreso in conseguenza di specifiche alleanze e azioni americane». Dirlo allora e dirlo in America significava avere fegato e gliene va dato atto.