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Pierluigi Piccini
E anche quest’anno, a dicembre, l’Italia si divide secondo una liturgia non scritta ma rigidissima: c’è chi va alla Scala per capire dove sta andando il Paese, chi va alla Nuvola per interrogarsi su dove sia già arrivato, e chi va ad Atreju per celebrare serenamente il fatto di esserci arrivato lui.
Atreju 2025 non è più una festa politica. È una stazione climatica. Non ci si va per discutere, ma per svernare. Temperatura controllata, atmosfera ovattata, luci giuste, niente spigoli. Una destra finalmente rilassata, pacificata, che non alza più la voce perché non ne ha bisogno. È il potere quando smette di darsi del tu e comincia a darsi del lei.
La scenografia è perfetta: Castel Sant’Angelo, Roma eterna senza traffico, monumentale ma addomesticata. Tutto è trasparente, elegante, rassicurante. Il grande albero di Natale è tricolore, perché a questo punto anche l’abete deve fare la sua parte. Ci si dà appuntamento “sotto l’albero” come una volta ci si dava appuntamento “in redazione”: stesso senso di appartenenza, meno sigarette, più foto.
I dibattiti scorrono come musica d’ambiente. Nessuno li ascolta davvero, ma tutti sono contenti che ci siano. Servono a legittimare il resto: il vin brulé, le luci calde, la sensazione di stare dalla parte giusta della storia. È una politica in versione mercatino di Natale: un po’ identità, un po’ folklore, molto comfort emotivo. Se ci fosse la neve, sarebbe Cortina. In assenza, va bene Roma che finge di essere ordinata e una destra che finge di essere ancora in missione.
Il cibo, come sempre, racconta più dei discorsi. Qui niente sperimentazioni o ansie gastronomiche: arrosticini, polenta, birra. Tradizione come rifugio, consenso come digestione lenta. Altrove, nei riti culturali dell’altra Italia, si sopravvive a panini distratti e prosecco stanco; qui si mangia solido, come se il Paese passasse ancora – e forse passa davvero – dallo stomaco.
Intorno sfilano personaggi che sembrano capitati per caso e invece no. Conduttori, attori, commentatori, figure utili a dire: vedete? Siamo normali. Anzi, siamo meglio. Quando si parla di social, di intelligenza artificiale, di privacy, lo si fa con l’aria di chi ha già individuato il colpevole: non il potere, ma chi lo subisce. Meglio se giovani, meglio se online.
Il nemico cambia nome ma non funzione. Non è più il gender, non è più il woke: ora è l’algoritmo. Invisibile, impalpabile, quindi perfetto. Si cita il Papa, si invoca l’ordine, si applaude molto. L’innovazione va bene, purché resti sotto controllo. Magari di qualcun altro.
La vera novità, però, è che Atreju non ha più bisogno di essere aggressiva. È diventata simpatica. Si prende in giro, organizza scherzi, accetta lo sfottò, lo metabolizza. È il segno più sicuro del potere: quando puoi permetterti l’autoironia, significa che non rischi più nulla.
Fuori, a pochi chilometri, un’altra Italia continua a discutere, a problematizzare, a commemorare. Dentro, sotto l’albero, si celebra. Non una vittoria, ma una normalità conquistata. È Natale, in fondo. E non c’è nulla di più rassicurante di una politica che somiglia a una festa ben riuscita, dove nessuno ha davvero interesse a rovinare l’atmosfera.
Ci vediamo sotto l’albero. Anche quest’anno.




