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NUOVO CINEMA MANCUSO
Occhio ai registi rumeni
Non staremo a dire un’altra volta quanto sono bravi i registi rumeni. Dal niente, che voleva dire niente per davvero, non avevano neanche i cinema – hanno messo su una scuola di registi da grandi a grandissimi. Lo verifichiamo ogni volta che ai festival arriva un titolo dalla Romania. Caso più raro, quando la distribuzione italiana ne mette uno in circolazione. Per esempio, “L’anno nuovo che non arriva” di Bogdan Muresanu – premio Orizzonti alla Mostra di Venezia 2024.
E’ il 17 dicembre 1989, seguiamo la vita e i quotidiani affanni di un gruppo di persone. La donna non più giovane affezionata alla sua casa, demolita per far posto a caseggiati alveare, e costretta a trasferirsi in un appartamentino di 44 metri quadrati che il figlio, funzionario di partito, le ha procurato. L’attrice che vorrebbe solo mandar giù troppi valium, e invece viene scelta per cantare in televisione un inno a Ceausescu. Da sostituta, perché la titolare ha fatto perdere le sue tracce. E adesso i funzionari e i tecnici dell’emittente tv hanno il loro bel daffare con il taglia e cuci (“certi miracoli non riescono a farli neppure gli americani”, dicono).
Viene in mentre in film a episodi di Cristian Mungiu, nel 2007 vincitore a sorpresa della Palma d’oro a Cannes, con “4 mesi, 3 settimane e 2 giorni”, che raccontava le peripezie e i maltrattamenti di un aborto clandestino. Era intitolato “Racconti dell’età dell’oro”. Vale a dire, le leggende non metropolitane della Romania comunista. Per esempio, il direttore di un giornale che diede ordine di ritoccare la fotografia di Nicolae Ceausescu e del presidente francese Giscard d’Estaing in visita. Ceausescu si era tolto il cappello, sarebbe potuto sembrare un segno di sottomissione all’occidente capitalista. Il fotografo per eccesso di zelo ritoccò in fretta la foto, senza accorgersi che Ceausescu il suo cappello lo teneva in mano. E ora ne aveva anche uno in testa. Fermarono d’imperio le rotative.
Mentre i tecnici della tv cercano la sosia, e coprono il buco nella scenografia (sicuramente un vandalo anti Ceausescu) un paio di giovanotti con tuta da pescatore, e il balsamo cinese al posto della canfora tentano di attraversare il Danubio a nuoto. Gli dicono che è semplice, basta seguire un tubo e nuotare. Quando un lavoro viene fatto in fretta, il funzionario di partito sorpreso dice “ma allora si può fare anche da noi”.
Il bambino, voce dell’innocenza, elenca nella lettera natalizia i regali desiderati dai familiari. Per papà, “la morte di zio Nicu” – che intanto a Timisoara spara sulla folla. Il genitore terrorizzato cerca di recuperare la lettera appena spedita dalla cassetta postale. Pensa e ripensa, decide di annegare la missiva scritta a penna. Il film parte un po’ lento, ma merita di essere visto.
IL RAPIMENTO DI ARABELLAdi
Carolina Cavalli, con Benedetta Porcaroli, Lucrezia Guglielmino, Chris Pine
Carolina
Cavalli, al suo secondo film dopo “Amanda” (David di Donatello e rara opera prima italiana distribuita in qualche sala negli Stati Uniti), conferma il suo talento di regista e sceneggiatrice. E’ raro guardare scene tanto fuori dal mondo – per originalità di situazioni, risposte alle medesime, dialoghi in cui abbiamo sempre l’impressione che qualcosa di importante ci sia sfuggito, e le cose non vengono sempre dette a parole. Avremo questa impressione fino alla fine del film, che per questa incertezza, e questa qualità di sogno, affascina lo spettatore. Una ragazzina e il padre, nel prologo numero 1, battibeccano. Lei vuole andare al Taco Bell, ha fame. Il genitore vuole leggere un suo racconto – sull’infanzia americana – e si sa come sono gli scrittori dilettanti. Nervosi, permalosi, poco interessati alle esigenze altrui. “Sei invidioso di Jonathan Franzen”, urla la bambina. Ahimé restringendo il pubblico a chi conosce lo scrittore, il successo di “Le correzioni”, e il moto di stizza che tutti gli scrittori all’epoca ebbero contro di lui – pure scrivendo articoli finti seri, ma si capiva la rabbia. Nel secondo prologo Benedetta Porcaroli lavora in una pista di pattinaggio, litiga, viene licenziata. La strana coppia si forma nel parcheggio del Taco Bell, non luogo di un non luogo (direbbe Marc Augé), dalle parti di una frontiera. L’adulta crede di vedere se stessa da piccola. La piccola finge di zoppicare, e attira l’attenzione.
C’ERA UNA VOLTA MIA MADRE
di Ken Scott, con Leila Bekhti, Jonathan Cohen, Sylvie Vartan
Recita
un detto ebraico: “Dio non poteva essere dappertutto, per questo ha creato le mamme”. Sta in chiusura di questo film che si regge su una incredibile madre. Cocciuta, curiosa, attentissima al risparmio. Capace da sola di impicciarsi nei fatti di un intero condominio, per non parlare delle vicine, delle maestre, e in questo caso delle assistenti sociali. Neanche inventate, vengono dal romanzo autobiografico di Roland Perez, debitamente intitolato “C’era una volta mia madre”. Alla nascita, il quinto figlio dei Perez – francesi delle periferie, diciamo così – ha un piede malformato. Il dottore dice che camminerà a fatica, di correre non si parla, quanto agli sport non conviene sperarci. L’assistente sociale, l’attrice Jeanne Balibar più legnosa che mai, pure antipatica con gli occhiali e l’aria professorale, più altri dottori e vari esperti insultati dichiarano che il bambino non camminerà mai senza una protesi. Mamma Leila ribatte che no, suo figlio camminerà. Con la ginnastica ma soprattutto con l’aiuto di Dio – in effetti, dovrebbe essere sfinito da tante preghiere che salgono dal condominio, a tutte le ore. Mamma Leila insiste, e succede il miracolo. Ma il film non è finito, sarebbe troppo facile. Alla guarigione contribuisce non poco la diva bionda Sylvie Vartan. Da grande, le strade di Roland e della cantante si incontreranno. La mamma con i capelli grigi continuerà a raccomandare “sul metrò, non parlare con gli sconosciuti”.
ETERNITY
di David Freyne, con Elizabeth Olsen, Miles Teller, Callum Turner, John Early
After
Life” era il titolo di un film girato quasi 30 anni fa dal giapponese Hirokazu Kore’eda. Già mostrava il talento del regista che poi ci darà un paio di memorabili storie viste (e premiate) a Cannes. I bambini scambiati in culla di “Father and Son” e la finta famiglia criminale di “Un affare di famiglia”, Palma d’oro 2018. In “After Life” i morti devono scegliere il ricordo che li accompagnerà per l’eternità. Uno solo. Il personale è a disposizione per aiutare, il ricordo verrà registrato su cassetta (altri tempi). “Eternity” è la versione aggiornata, complicata, americanizzata e più zuccherosa di David Frayne. Una coppia anziana battibecca in macchina, stanno andando a un baby shower. Lui muore mangiando un salatino, lei malata lo segue dopo qualche giorno. Entrambi si ritrovano su un treno diretto a una specie di limbo, giovani come quando erano felici. In una stazione di smistamento governata da addetti molto indaffarati vengono a sapere le regole. Hanno una settimana per scegliere con chi trascorrere l’eternità. Lui – Miles Teller, il ragazzino che suonava la batteria fino a farsi sanguinare le mani in “Whiplash” di Damien Chazelle – sa benissimo chi scegliere. Per la moglie Joan c’è una complicazione: l’amore dei vent’anni era morto nella guerra di Corea: la tentazione di scoprire come sarebbe andata a finire è irresistibile. Complici, i due assistenti che aiutano la coppia a infrangere le regole.
NGUYEN KITCHEN
di Stéphane Ly-Cuong, con Ahn Tran-Nghia, Clotilde Chevalier, Gaël Kamilindi
La
comunità degli espatriati vietnamiti a Parigi è la più antica e numerosa del mondo. Nei film francesi non si vede quasi mai, gli studenti squattrinati – indigeni e in visita – ne conoscono i ristoranti a buon mercato. Yvonne Nguyen, nata in Francia, sogna a colori e in musica, come nei film di Jacques Demy, “Les parapluies de Cherbourg” e “Les demoiselles de Rochefort” (con Catherine Deneuve e la sorella Françoise Dorléac, morta giovane in un incidente). Musical alla francese, un filo di voce, molta ironia, sublime eleganza e scenografie a tinte pastello come i vestiti. Yvonne – sua madre le ha dato un nome francese per aiutarla nella vita – canta e recita. Nei supermarket, perlopiù ritornelli sugli involtini primavera di una certa ditta. Recita in un sottoscala, ribattezzato teatro d’avanguardia e diretto da un simpatico capocomico nero. Gli spettatori si contano con le dita. La mamma vietnamita gestisce un ristorante nella banlieue di Parigi, è assillante come una mamma ebrea: quando ti sposi, quando comincerai a guadagnare, perché non la smetti di fare provini uno dopo l’altro, tanto non ti prendono mai. La ragazza è troppo francese per le parti da vietnamita, troppo esotica per i ruoli da francese. C’è anche una zia, più che altro per consentire alla mamma di dire male della figlia Yvonne. Ma quando cantano e ballano? Sempre: in cucina tra gli involtini, nel teatrino, assieme al buon partito scelto dal madre. Non perdetelo!





