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NUOVO CINEMA MANCUSO
Cimeli di Lynch all’asta
Qualcosina appartenuta a David Lynch? Magari un tazzone di ceramica con “la donna del tronco”? Oppure una coppia di walkie-talkie, uno con il nome del regista e l’altro con il nome di Mark Frost? Insieme nel 1989 avevano prodotto l’episodio pilota di “Twin Peaks” – poi Frost ne scrisse altri dieci, e uno (forse in premio) lo girò. Magari i menu di Winkie’s, che garantisce “Qui il caffè è sempre caldo” – era in una scena di “Mulholland Drive”.
Preparatevi. L’asta si terrà il 18 giugno alla casa d’aste Julien’s Auctions di Los Angeles, specializzata in memorabilia – noi possiamo dire cimeli – legati al mondo dello spettacolo. Hanno venduto oggetti e carte appartenuti a Harry Belafonte, a Leonard Cohen, a Olivia Newton-John, e prima ancora a Greta Garbo: i nipoti avevano messo all’asta anche le scarpe vecchie e i posaceneri ancora con i mozziconi dentro.
I posacenere – una serie – sono anche nell’asta di David Lynch, assieme a svariati accendini. Tocco macabro, a Lynch nel 2024 era stato diagnosticato un enfisema. Affrettatevi, si possono fare offerte su internet, per i circa 400 lotti. Per esempio, chi si aggiudicherà il sipario di velluto rosso e il pavimento bianco e nero con le greche, visto nella sequenza onirica di “Twin Peaks”, con bionda e nano canterino. Si può dire nano? Di sicuro Lynch non gradirebbe un eufemismo. Si può fare un’offerta anche per una delle numerose macchine per fare il caffé.
I prezzi? O per meglio dire la base d’asta? Variano assai, per esempio la sedia da regista in pelle con il nome di Lynch inciso sopra a lettere dorate è partita da una stima di 7 mila dollari e dopo venti rilanci è arrivata a 15 mila. Le poltrone di casa rivelano la passione del regista per il moderno design – ma per trovare qualcosa che sembri comodo bisogna buttarsi sulla poltrona con pouf di Saarinen, arrivata dopo 17 rilanci a 4 mila dollari (partiva da una stima di 1500, a stare alti).
Il tavolo per le riunioni, disegnato dal regista medesimo assieme alle sue dodici sedie, è arrivato dopo una decina di offerte a 2.250 dollari (la stima arrivava a 3000 dollari). Mentre una sedia vintage Eames è salita a 900 dollari – partiva da 400. Nel patio di casa, le simpatiche sdraio con i fili di plastica.
In cucina sembrava davvero che facessero sempre e solo caffé. Da bere attorno a un tavolo di plastica, ma da portarsi via sarebbero le quattro sedie cromate, due gialle e due verdi, sempre vintage ma con cuscini imbottiti. Varie teiere e piatti di portata. Un tostapane bello rosso. Un minibar che risale agli anni 70, di fabbricazione italiana, ancora tutto nella scatola. Si compone di una caffettiera espresso elettrica, garantita “con termostato – non si brucia mai”. Più due tazzine di plastica arancione e due cucchiaini.
LA TRAMA FENICIA
di Wes Anderson, con Benicio del Toro, Mia Threapleton, Tom Hanks
Nella
“trama fenicia”, la trama non va intesa esattamente come un plot. Nell’originale, il titolo diceva “scheme”, nel senso del “Ponzi scheme”: una truffa elaborata, che premia i primi investitori con i soldi di quelli che arrivano dopo, e finché il meccanismo non si ferma l’investimento sembra redditizio e consigliabile. Benicio del Toro, a cui Wes Anderson ha affibbiato il nome cinefilo di Zsa-zsa Korda, pare un Elon Musk degli anni 50. Un genio che si occupa di armamenti e aviazione, pieno di idee brillanti e quindi ostacolato, diremmo oggi, dai “poteri forti”. Qui hanno il vizio di mettergli una bomba sull’aereo, e poi ancora un’altra su un altro aereo. Ha dieci figli – ma Wes Anderson giura di non aver pensato al miliardario ora dissociato dal suo amicone Donald Trump. Piuttosto, a Onassis, Niarchos, magari Gianni Agnelli. Nove maschi, e una femmina suora, che ha nominato sua unica erede. La trama fenicia serve a dominare l’economia di un’inesistente nazione, coinvolgendo tutta la famiglia. Anche l’odiato fratello Benedict Cumberbatch: gli ha imposto una barba da Rasputin ma lo riconosciamo lo stesso. Come riconosciamo, ma non fa nulla per nasconderlo, lo stile di Wes Anderson – anche qui scrive con Roman Coppola. Ormai siamo allo spreco: gli attori si affezionano talmente a lui, e viceversa, che si accontentano di parti minuscole. Pure noi gli siamo affezionati, ma ormai è forte la tentazione di dire “manierismo”.
SCOMODE VERITÀ
di Mike Leigh, con Marianne Jean-Baptiste, Michele Austin, David Webber
Un’invettiva
che dura quasi tutto il film. Rubiamo l’idea al critico Jan Kott, che disse – a proposito del “Tito Andronico” di Shakespeare, dove alla fine sono tutti morti – “se ci fosse un altro atto, comincerebbero a morire gli spettatori delle prime file”. Se il film di Mike Leigh durasse altri dieci minuti, invece degli aurei 97, la protagonista Pansy comincerebbe a insultare gli spettatori. Non insulti banali. Cattiverie elaborate o perfide osservazioni su chiunque le capiti a tiro. A volte senza la minima provocazione, quando se la prende con la commessa del grande magazzino che vuole aiutarla a scegliere il divano. A volte la provocazione c’è, ma da parte sua che si comporta in maniera strana: sta seduta nella macchina parcheggiata, incurante del poveretto che gira senza trovare un posto e deve scaricare. La migliore, indirizzata ai vicini che hanno messo a una bambina piccola un vestitino con le tasche: ma che ci deve mettere dentro? Urla di terrore per la volpe che transita nel giardinetto cinto di mattoni. Pulisce ossessivamente il divano di casa, e tutto il resto. Non riesce neppure a toccare i fiori che la sorella Chantelle – parrucchiera e chiacchierona – le regala. Ha un marito buono e un figlio grasso e nullafacente, Mike Leigh, 82 anni, sostiene di partire dal lavoro con gli attori, che improvvisano scene e dialoghi. Visto il film, e tutti gli altri suoi, è difficile credere che non esistesse una sceneggiatura.
PER AMORE DI UNA DONNA
di Guido Chiesa, con Mili Avital, Ana Ularu, Ori Pfeffer, Alban Ukaj
Dal
romanzo di Meir Shalev, che abbiano nel nostro cuore di lettori per “E’ andata così”. Racconta un aspirapolvere, mandato
“La trama fenicia”, tredicesimo film diretto da Wes Anderson, è stato presentato al Festival di Cannes ed è ora nelle sale in un pacco regalo dai parenti che non hanno sentito il richiamo della Palestina – negli anni venti del Novecento, sotto il mandato britannico – e vivono in paesi più agevolati in materia di pulizie domestiche. Lo diceva anche la nonna di Amos Oz, emigrata dall’Europa orientale: “Il medio oriente è pieno di microbi”. Per questo lavava e strigliava i nipoti (si legge, assieme ad altre storie meravigliose, in “Una storia d’amore e di tenebra”). Meir Shalev aveva intitolato il romanzo da cui Guido Chiesa ha tratto questo film “Gli amori di Judith”, poi si è adeguato al titolo dell’edizione italiana (l’originale deve essere sembrato poco serio). Il film inizia negli anni 70, a Rhode Island. Esther è americana, divorziata e infelice. Ha rotto da tempo con la famiglia, alla morte della madre il notaio le consegna una busta sigillata. Scritta quando sua madre cominciava a perdere la memoria. Deve andare in Israele a cercare una donna vissuta decenni prima. Stacco, e siamo negli anni 30, ancora non si parla di Israele (il mandato britannico durerà fino al 1948). Yehudit, scopriamo, aveva sposato un vedovo con due figli, invalido dopo un incidente. E si era data abbastanza da fare, con un paio di relazioni parallele. Quando resta incinta, si rifiuta di rivelare chi dei tre è il padre. I maschi cercano indizi.
L’ULTIMA REGINA
di Karim Aïnouz, con Alicia Vikander, Jude Law, Eddie Marsan
Catherine
Parr fu la sesta moglie di Enrico VIII. Jude Law per essere credibile nella parte è ingrassato, si lasciato imbruttire, e – dicono le malelingue – non si è lavato per un po’. Lasciate le mutande candide del giovane papa di Paolo Sorrentino, per terrificanti mutandoni che non conoscono lavandaia da mesi. E’ stato in guerra contro la Francia, ha urgenza di scoparsi la moglie – che aveva nominato reggente, in caso fosse defunto lontano da casa – per avere un erede. Che la sventurata perderà dopo una colluttazione. Con il marito, ovvio. E tutto peggiora: Catherine non ha più potere, il marito è sempre più furioso per le ulcere alle gambe, lei teme di finire come qualcuna delle mogli precedenti, Anna Bolena o Catherine Howard. Da parte sua, lei era già sopravvissuta a due mariti, e ne avrà un altro dopo Enrico VIII, Thomas Seymour. Il regista brasiliano Karim Aïnouz, sulla base del romanzo “La mossa della regina” di Elizabeth Fremantle, insiste sulle puzze che si sentivano a corte, e che l’ultima regina cerca di contrastare bruciando profumi. Serviva ben altro: Enrico VIII stava marcendo, un pezzo dopo l’altro. Finché Catherine, convocata sul letto di morte, soffoca il marito. Salirà al trono la figlia di lui – e di Anna Bolena, fatta decapitare per alto tradimento – Elisabetta. Anche lei si era fatta un po’ di galera, negli anni delle guerre tra protestanti e cattolici nessuno poteva vivere sicuro.