
Il volto dell’architetto
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Good Times
8 Giugno 2025SPETTATORI PER UNA SETTIMANA
NUOVO CINEMA MANCUSO, scelti da Mariarosa Mancuso
Tom Cruise, macché pensione
Cosa farà Tom Cruise, finita l’ultima avventura nei panni (a volte succinti, si esibisce pure con un costumino da bagno nero) di Ethan Hunt? “Mission: Impossible – The Final Reckoning” potrebbe continuare: la saga partita nel 1996 con il film di Brian De Palma mostra una certa fatica a chiudere.
Basterebbero i titoli. Nel 2023 era “Mission: Impossible – Dead Reckoning”, nel 2025 abbiamo avuto “The Final Reckoning”: una resa dei conti mortale e poi una resa dei conti finale. Sostiene Tom Cruise che siamo alla fine di un’avventura iniziata trent’anni fa. Ha 62 anni, non potrà sempre far da solo le sue acrobazie. Sullo schermo è invincibile, e lui prima di girare si sottopone a tutti i check up inventati sulla terra.
Ci sarebbe anche “Top Gun: Maverick”, che era davvero un bel film. Entrati al cinema con passo strascicato, rassegnato per l’anteprima – era anche periodo di Covid, non c’era grande entusiasmo – siamo usciti entusiasti. Davvero entusiasti: Tom Cruise era riuscito a giocare sugli anni passati in maniera intelligente – il merito era anche del regista Joseph Kosinski. E del giovane attore Miles Teller che aveva lasciato la bacchetta e la batteria in “Whiplash” di Damien Chazelle: mai avremmo pensato che un assolo di batteria potesse provocare sanguinamento. Potevamo attenderci un passaggio di consegne, e una nuova saga. Finora non è successo.
E allora che farà Tom Cruise? Se lo chiede – oltre a noi, impossibile non farlo dopo “The Final Reckoning”, quando il nostro sconfigge un accrocco informatico che sta tra Dio e l’AI – anche Vulture, sempre in prima linea nelle analisi, nelle anticipazioni e nelle curiosità. Sembra che l’attore abbia preso seriamente in considerazione la possibilità di tornare nei panni di Les Grossman. In un futuro spin off – un film derivato, non necessariamente un sequel – di “Tropic Thunder”.
Tom Cruise era in quel film – diretto da Ben Stiller, satireggiava il cinema d’azione, dietro e davanti alla macchina da presa – un produttore cinematografico molto sopra le righe. Irascibile e – sembra – ispirato al vero produttore Scott Rudin, uno che tra l’altro prendeva parecchi appunti (anche questa non è una novità, David O. Selznick seppelliva i suoi collaboratori – tutti, anche se si chiamavano Alfred Hitchcock – di “memo”).
Tra gli altri progetti, una commedia diretta dal messicano Alejandro González Iñárritu, il regista di “Birdman” e “The Revenant” (Leo DiCaprio che dorme tra le viscere di un animale appena ucciso lo dovreste ricordare). La trama, secondo IMDB: “L’uomo più potente del mondo provoca un disastro e parte per una missione che dovrebbe far di lui la salvezza dell’umanità”. Insomma: un film sulla megalomania, e senza passare da Elon Trump.
MARACUDA – DIVENTARE GRANDI E’ UNA GIUNGLA
di Viktor Glukhushin
Il mondo non si è evoluto in un colpo solo. La faccenda ha fornito lo spunto per almeno due simpatici romanzi. Qualche anno fa “Il più grande uomo scimmia del Pleistocene” di Roy Lewis, e all’inizio del Novecento, il romanzo di Jack London “Before Adam – Prima di Adamo”. C’è l’autostrada dell’evoluzione e c’è l’accelerato del evoluzione, spiega il film. C’è chi ha il fuoco, e lo sa riaccendere. Chi ha trovato un tizzone accesso, e mette validi giovanotti a protezione: quando lo lasciano spegnere, bisogna andare in giro a procurarsene altro. Non sono così avanzati da trovare vergini che lo accudiscano, impedendo lo spegnimento, punite se si distraggono. Alla ricerca del fuoco parte il figlio del capotribù, gente che sta con mezza noce di cocco in testa, vestita come nel telefilm di Hanna e Barbera “Gli Antenati” (che però avevano tutto, la collana di pietre bianche e l’automobile con le ruote di pietra). Maracuda non è tanto sveglio, e lo prendono in giro. Spera così di riscattarsi. La nonna invece lo sfotte, amabilmente e perfidamente – di tutti pare la più evoluta, per via dei capelli a crocchia. Finisce su un pianeta dove regna – o così sembra – una specie di struzzo multicolore. I suricati fanno da guardie del corpo, e come in tutti i film sulla giungla – il vecchio “Re Leone” a disegni animati, per esempio, quello nuovo è inguardabile – non sono molto apprezzati. Qui fanno i soldati semplici, e non sembrano tanto svegli.
ARAGOSTE A MANHATTAN
di Alonzo Ruizpalacios, con Rooney Mara, Raùl Briones
Quando qualcuno vi dirà che somiglia a “The Bear”, sappiate che la trama viene da un lavoro teatrale di Arnold Wesker, anno 1957. Era costui un commediografo britannico, autore di 50 testi per il teatro, svariati volumi di short story, saggi, giornalismo, un po’ di poesia, un libro sui libri per bambini. Chi era nato negli anni 30 del secolo scorso considerava la scrittura un mestiere. Finito un dramma – inteso come genere letterario – si passava a un altro. Mise mano a “The Kitchen” quando in attesa del successo lavorava in un albergo a Norwich. Ogni tentativo di far derivare il film dalla serie “The Bear”, pure scritta benissimo, o dai film come “The Menu”, è del tutto fantasiosa: nei tempi felici i commediografi non avevano bisogno delle serie per farsi venire un’idea. Siamo in un ristorante di Times Square chiamato “The Grill”: per chi ci lavora, l’inferno in terra. Ordinazioni che si accavallano, clienti che hanno fretta, personale non sempre in regola. Il cuoco messicano Pedro, per esempio, attende da tre anni di essere messo in regola. Non ha un carattere facile, ha messo incinta la cameriera Julia (Rooney Mara, ancora più sperduta nel bianco e nero smagliante della gigantesca cucina). Lei vorrebbe abortire, il maschio messicano non è d’accordo. Discutono tra i rumori di cucina, porte e pentole sbattute, urla in spagnolo, arabo, francese, qualcosa di albanese. Le aragoste? Una falsa pista per lo spettatore?
DANCER IN THE DARK
di Lars von Trier, con Björk, Catherine Deneuve, David Morse, Joel Grey
Cinque minuti di delirio, alla Gloria Swanson, dovrebbero essere concessi. Non siamo noi che abbiamo la noia facile, per aver visto troppi film. E’ il cinema che è diventato piccolo. “Dancer in the Dark” ha 25 anni, vinse la Palma d’oro a Cannes, la cantante e musicista Björk portò a casa un premio come migliore attrice. Vinse anche un Oscar, che ritirò vestita da cigno – lasciando ogni tanto cadere un uovo sul tappeto rosso: la sicurezza, pronta, glielo riportava. L’abito era dello stilista macedone Marjan Pejoski: gonnellina di tulle e un lungo collo drappeggiabile, con occhietti e becco giallo. In spregio al successo, la strana coppia si giurò odio eterno, giurando che non avrebbe più rivolto la parola all’altro. Peccato, il film che Movies Inspired riporta sugli schermi è un assoluto capolavoro. Un musical operaio, che ricorda certi film sovietici del secolo scorso, come “Volga-Volga”, due gruppi musicali in battello per partecipare a una gara canora a Mosca. O “I cosacchi del Kuban”, in gara per l’anguria più grossa e il maiale più grasso. Con “Dancer in the Dark” siamo in fabbrica, alle presse. Björk, immigrata dalla Cecoslovacchia con un figlio, lavora un turno dopo l’altro: vuole fare operare il figlio che soffre di una malattia agli occhi. Non importa quanti altri film abbiate già disprezzato – il danese è altalenante nei risultati. Al reparto presse lavora Catherine Deneuve, abito di cotonina a fiori e fazzoletto in testa.
L’AMICO FEDELE
di Scott McGehee e David Siegel, con Naomi Watts, Bill Murray, Noma Dumezweni
Non abbiamo letto nulla di Sigrid Nunez. Finora. Magari cambieremo idea. Non lo abbiamo fatto dopo il film “La stanza accanto”, che Pedro Almodovar ha tratto dal suo libro “Attraverso la vita” – non memorabile neppure il film, va pur detto che parlare tutto il tempo di morte e suicidio assistito ha i suoi fan. Con “L’amico fedele” Nunez ha vinto nel 2019 il National Book Award. Facile. Muore il cane. Neanche un cane qualunque, un gigantesco alano. Oggi sarebbe vietato, ricorda però una fantastica battuta di “Io e Annie”, quando Diane Keaton gira con un cane di taglia media al guinzaglio e spiega a Woody Allen: “Il mio psicoanalista dice che è un sostituto del pene”. Woody ha la risposta pronta: “Nel tuo caso avrei pensato a un alano”. Succede che Bill Murray, amico e maestro della scrittrice in crisi Naomi Watts, si suicida (avrà avuto i suoi motivi, certo dal film non si capiscono). Il suicida avrebbe una moglie, ma il gigantesco alano Apollo viene affidato alla scrittrice che vive in un appartamento a New York con l’affitto bloccato, e bloccato pure è il manoscritto del libro che deve consegnare, e non riesce a finire. Ovvio che i condomini non vogliano il cane, lo dice il regolamento. Fuori scena i cani sono due, non si devono stancare sul set come i bambini, quindi si scritturano coppie di gemelli. Wilder e Bing, forniti da un rinomato allevamento. Piacerebbe sapere poi chi se li è portati a casa.