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NUOVO CINEMA MANCUSO
Il dragone e i suoi vecchi fan
Torna il dragone da addomesticare. In live action. Eccetto il drago dagli occhi dolci, naturalmente. Intorno a lui sono tutti attori in carne e ossa – oppure fabbricati con l’AI. Racconta il regista francese Mathieu Kassovitz, che debuttò con “La Haine” e ora sta avviando uno studio di lavorazione tutto digitale: “Niente paura, gli umani mettono l’arte e le macchine mettono tutto quel che serve per esprimere la loro idea o visione”.
Il drago, draghetto o dragone con gli occhi gialli nasce in un romanzo di Cressida Cowell, già portato sullo schermo del film d’animazione con lo stesso titolo, quindici anni fa. DreamWorks, a differenza dalla casa rivale Disney, non si era ancora esibita in questo salto mortale – sull’altro versante hanno già una notevole esperienza.
Dal “Re Leone” a “Pinocchio”, dalla “Carica dei 101” ribattezzato “Crudelia” (la cattiva che vuole una pelliccia di dalmata e di cognome fa De Vil), a “Il libro della giungla” – tutto fabbricato in un palazzetto poco fuori Los Angeles. Per fortuna ogni tanto cancellano qualcosa, o un progetto va storto: se no saremmo sommersi dai remake.
DreamWorks comincia con il gioiello della corona. “How to Train Your Dragon”, vale a dire “Addestra il tuo dragone” – neanche fosse un barboncino che deve prendere il boccone dalle tue mani, senza saltarti addosso. E’ il remake in live action di quel film, per essere precisi. Scritto e diretto da Dean DeBlois, che ora tenta il bis. Tra recensioni che lodano l’assoluta meraviglia. E altre che sbeffeggiano il risultato. Il Dragone con gli occhi gialli e buoni, specialmente in primo piano, è irresistibile. Più difficile da mandare giù l’intero film, con il regista che decide di non cambiare una virgola dell’originale.
Chi ha prende questa via, irrita i giovani fan – ora adulti. Difficile avere un trasporto sentimentale per il figlio di una famiglia di Vichinghi che si chiama “Hiccup” – vale a dire singhiozzo. L’orrendo nome è spiegato con l’usanza vichinga di dare ai bambini nomi in grado di tenere lontane le creature maligne. Nel primo film, Hiccup ha 15 anni ed è poco avventuroso. Tenta senza successo di uccidere il suo primo drago, e viene cacciato – suo padre, ovvio, è il più grande cacciatore tra i vichinghi. Il figlio ha il cuore tenero. (A parte il fatto che non siamo in un asilo per signorine: non saper cacciare può essere pericoloso).
Hiccup fa amicizia con il dragone, il più pericoloso di tutti – lo chiamano Furia Buia. Il primo film tutto artificiale, dieci anni fa, era guardabile, persino carino. Ma il meglio è nemico del bene, come accade in tutti questi remake. Fatti per catturare i giovani, che già sono occupati altrove. Ci andranno i genitori nostalgici. Non del dragone, dei loro figli quando erano piccoli.
L’AMORE CHE NON MUORE
di Gilles Lellouche, con Adèle Exarchopoulos, François Civil, Malik Frikah
Le
grand bain” era un film di Lellouche – quello con due elle, figlio di un ebreo algerino e di una cattolica di Bretagna – con la giusta dose di malinconia. Basterebbe l’idea di uomini di mezza età tanto sfigati e tristi da trovare conforto e amicizie in un gruppo dedito al nuoto sincronizzato. Ma c’era sufficientemente ironia per non suicidarsi tutti in piscina. Costumi non all’ultima moda, fisico non tanto atletico, per passare il tempo, e si esercitavano nella preparazione del numero. Il nuoto sincronizzato – disciplina olimpica maschile dal 2024, alle olimpiadi di Parigi: quando le praticanti erano solo ragazze, come Christine Lagarde, si chiamavano “sincronette”. Qui siamo all’altra estremità dello spettro maschile. Desiderio inarrestabile, come può essere il primo amore di due ragazzi di periferia (la trama viene dal un romanzo di Neville Thompson). Siamo nella solita (parlando di cinema) città nel nord della Francia. Solita città portuale con le acciaierie dismesse, e assieme a loro se n’è andato anche il modesto benessere. Jackie è una studentessa modello, ben educata ma irrequieta, con la passione per l’autenticità. Poi passa, di solito. Ma se ti acchiappa a un’età impressionabile, faresti qualsiasi cosa. Clotaire è un ragazzo di strada, vive di piccoli furti e piccoli imbrogli. Le loro gesta sono magnificamente fotografate, stile anni 80. Una tragedia romantica fuori tempo. Nei film succede, peccato per la lunghezza esagerata.
BALLERINA
di Len Wiseman, con Ana de Armas, Keanu Reeves, Catalina Sandino Moreno, Gabriel Byrne
Nessuno
più sa raccontare una storia che inizi e finisca in tempo ragionevole – son scarsi di idee gli sceneggiatori? O sono gli spettatori rassicurati da storie sempre uguali, come i bambini che vogliono ascoltare la fiaba che conoscono? “Ballerina” viene dal mondo cinematografico di John Wick. Quinto film in ordine cronologico, ma va a incunearsi tra il terzo capitolo “Parabellum” e il quarto capitolo. John Wick, per i poco pratici, è Keanu Reeves con i capelli lunghi e l’aria sempre contrariata. Nome in codice: Baba Yaga. Bisogna capirlo. Faceva il killer, vive nascosto. E’ appena rimasto vedovo, abbandona il suo nascondiglio quando il mafioso e principe russo Tarasov gli porta via i regali della moglie, gli uccide il cane e fa sparire e la preziosa Mustang. La vendetta sarà atroce, accanto a lui combattono i suoi scagnozzi. Disegnato il quadro bisogna mettere i colori, ed è quasi sempre sangue. Ana de Armas sta chiusa in un armadio, papà spera così di proteggerla dai criminali che stanno per ucciderlo: i criminali della Ruska Roma. La rapiscono, la crescono facendole fare gli esercizi con la sbarra e altrettanti con armi e granate e lanciafiamme, Anjelica Huston le spiega i fondamentali: “Sarai sempre la più piccola e la più debole. Per vincere devi cambiare i termini del combattimento”. Detto e fatto. Combattimenti acrobatici uno dopo l’altro. Con tutti i mezzi a disposizione, anche dentro uno chalet. Era meglio accanto a James Bond.
VOLVERÉIS – UNA STORIA D’AMORE QUASI CLASSICA
di Jonás Trueba, con Itsaso Arana, Vito Sanz, Fernando Trueba
Un
matrimonio finisce, un divorzio dura tutta la vita”. Era Woody Allen, ancora citabile nei salotti buoni (forse non è stato neanche il primo a dirlo, certamente non il primo a pensarlo). “Non dovremmo celebrare le unioni ma le separazioni”, dice il padre della sposa (nel film) e il padre del regista, nella realtà. Mette disposizione anche la casa – nel film. Ale fa la regista, Alex fa l’attore, decidono di separasi dopo 15 anni di matrimonio. Organizzano una festa, piena di citazioni cinematografiche. La nouvelle vague si intreccia con la commedia americana fatta di battute a raffica: quella studiata nel suo saggio da Stanley Cavell. Si parte dal primo litigio, si precipita verso il divorzio, ma i due continuano a civettare – spesso c’è un cane di mezzo, con tanto di visite garantite all’ex – finché un bacio appassionato apre la strada a nuove nozze. In “Volveréis” non è chiaro il motivo del divorzio, c’è pure il sospetto che si tratti di un espediente – forse del regista Trueba figlio, forse della regista Ale del film nel film: ci sottopone un montaggio provvisorio come a chiedere collaborazione, applausi o fischi. Come in tutti i film citazionisti, è difficile fermarsi al momento giusto, resistendo alla tentazione dell’ultima idea (meta- cinematografica) venuta al regista o ai suoi collaboratori. Vale per la regista nel film e per il regista di “Volveréis”: dove non spunta Truffaut, spuntano Linklater o Rohmer.
LA TRAMA FENICIA
di Wes Anderson, con Benicio del Toro, Mia Threapleton, Tom Hanks, Scarlett Johansson, Willem Dafoe
Nella
“trama fenicia”, la trama non va intesa esattamente come un plot. Nell’originale, il titolo diceva “scheme”, nel senso del “Ponzi scheme”: una truffa elaborata, che premia i primi investitori con i soldi di quelli che arrivano dopo, e finché il meccanismo non si ferma l’investimento sembra redditizio e consigliabile. Benicio del Toro, a cui Wes Anderson ha affibbiato il nome cinefilo di Zsa-zsa Korda, pare un Elon Musk degli anni 50. Un genio che si occupa di armamenti e aviazione, pieno di idee brillanti e quindi ostacolato, diremmo oggi, dai “poteri forti”. Qui hanno il vizio di mettergli una bomba sull’aereo, e poi ancora un’altra su un altro aereo. Ha dieci figli – ma Wes Anderson giura di non aver pensato al miliardario ora dissociato dal suo amicone Donald Trump. Piuttosto, a Onassis, Niarchos, magari Gianni Agnelli. Nove maschi, e una femmina suora, che ha nominato sua unica erede. La trama fenicia serve a dominare l’economia di un’inesistente nazione, coinvolgendo tutta la famiglia. Anche l’odiato fratello Benedict Cumberbatch: gli ha imposto una barba da Rasputin ma lo riconosciamo lo stesso. Come riconosciamo, ma non fa nulla per nasconderlo, lo stile di Wes Anderson – anche qui scrive con Roman Coppola. Ormai siamo allo spreco: gli attori si affezionano talmente a lui, e viceversa, che si accontentano di parti minuscole. Pure noi gli siamo affezionati, ma ormai è forte la tentazione di dire “manierismo”.