Eugenio Giannetta
La Bibbia come grande romanzo dell’umano. Il fallimento come luogo dove il divino si manifesta. L’educazione come gesto d’amore. Marilynne Robinson, con il suo pensiero sempre acuto e spiritualmente alto, a partire dal suo ultimo libro Leggere Genesi (Marietti1820, pagine 288, euro 19,00), articola una riflessione che non si limita all’esegesi testuale, ma va ad analizzare il rapporto tra narrazione biblica, condizione umana, coscienza storica e sensibilità letteraria, da quello che forse è il libro biblico che più di ogni altro ha influenzato la storia della cultura occidentale. In questa intervista abbiamo parlato di violenza, fragilità, colpa e grazia, con uno sguardo che fonde insieme teologia, filosofia e letteratura, interrogando la natura della Bibbia e opponendosi a una lettura riduzionista. Per Marilynne Robinson, infatti, la Genesi non è solo un testo religioso, ma un’opera di pensiero che attraversa i secoli e continua a porre domande sul significato dell’esistenza e sul rapporto tra l’uomo e il divino. Robinson, in sintonia con alcuni tratti del magistero di papa Francesco, rivendica una visione della religione (e della letteratura) come forza critica e creativa, capace di resistere alle semplificazioni ideologiche e offrire linguaggi alternativi, donandoci parole che curano e interrogano.

In Leggere Genesi interpreta il Diluvio non come evento storico, ma come parabola morale che evidenzia la volontà divina di preservare la vita nonostante la corruzione dell’umanità. Alla luce delle attuali crisi ecologiche e sociali, pensa che questa visione possa parlare al nostro tempo?

«Sappiamo dalla stessa Bibbia che la distruzione di vite umane su scala era nota ai popoli antichi, temuta e anche praticata da loro. Il racconto del Diluvio ha offerto un’immagine concisa della desolazione totale che era possibile ovunque attraverso guerre, pestilenze, assedi, carestie e così via; orrori che di solito si verificavano in combinazione. Il diluvio è un atto esclusivamente divino. Questo focalizza una domanda: perché accadono i disastri e cosa significano su Dio o sugli dei? Il peccato intollerabile menzionato nella Genesi è la violenza; ciò significa che le persone si distruggevano a vicenda, trattandosi come se non avessero valore. Se Dio intervenisse nel nostro tempo, potrebbe farlo dieci minuti prima della diffusione di un virus mortale o che si scateni una guerra globale. La natura umana non è cambiata. Dio è stato fedele alla sua creatura problematica, mentre noi continuiamo a mettere alla prova la sua pazienza con minacce che poniamo a noi stessi».

Lei sottolinea anche come i protagonisti della Genesi – spesso moralmente imperfetti – siano strumenti di un piano divino. In un’epoca in cui l’idealizzazione di personaggi pubblici è così diffusa, quale lezione ci offre la Genesi sul ruolo del fallimento umano nella storia del bene?

«Ci fa capire che la nostra comprensione, anche della nostra vita e delle nostre azioni, è radicalmente incompleta. Esiste un tessuto più ampio, esteso nel tempo e su un numero qualsiasi di vite ed eventi, in cui le nostre delusioni potrebbero essere esattamente la cosa necessaria. La nostra tendenza è sempre quella di dimenticare che non esistiamo in modo isolato. Abbiamo un’influenza che va oltre la nostra immaginazione e che non è sempre così semplice e misurabile come un fallimento o un successo».

In che modo la sua esperienza di scrittrice e lettrice ha influenzato il suo lavoro su Leggere Genesi?

«La mia esperienza di scrittrice, lettrice ed insegnante di scrittura mi ha reso consapevole del valore delle strutture reiterative, dei dettagli precisi, dello sviluppo dei personaggi, della suspense, dell’ironia: la Genesi presenta caratteristiche letterarie di questo tipo, in uno stato di raffinatezza che la distingue da ogni altra letteratura antica. Naturalmente non sono competente per fare paragoni con l’Iliade o l’Eneide, entrambe molto più tarde della Genesi. Ma ritengo che l’affermazione sia difendibile per la ricchezza di significati che la Genesi racchiude, per la grandezza delle sue affermazioni sul genere umano. È una grande opera di prosa narrativa, un miracolo del linguaggio».

Non a caso lei ha definito la Bibbia uno straordinario “romanzo”, capace di raccontare la condizione umana con una profondità unica. Può la letteratura ispirare la Chiesa per essere più vicina alle ferite del mondo?

«L’esempio della compassione insegna la compassione».

A questo proposito, Francesco ha definito la Chiesa un “ospedale da campo”. Pensa che la scrittura possa svolgere questa funzione di curare le ferite del lettore e offrire uno spazio di umanità?

«Spesso mi viene detto che questo è un effetto dei libri che le persone hanno amato di più».

Lei ha scritto molto sul valore della grazia e della compassione. Riconosce una visione comune con Francesco?

«Sono pienamente in accordo con Francesco. La dignità intrinseca di ogni persona è un fatto che troppo raramente viene riconosciuto e celebrato. È un onore inconcepibilmente grande passare la nostra vita tra le immagini di Dio e, sorprendentemente, esserlo noi stessi. Ci vorrebbe una vita intera anche solo per iniziare a capire cosa significhi, se non che siamo in mezzo a una vasta progenie, che i più poveri di noi sono teneramente amati dal loro Padre, che sente la stanchezza di ogni migrante e la solitudine di ogni rifiuto, e che li vede tutti come figli che aspetta di consolare. Sono assolutamente d’accordo con papa Francesco nell’alta dignità e nel valore che egli attribuisce a tutte le persone. Il centro assoluto dell’esperienza umana è il desiderio di essere capaci di altruismo e di sentirne la certezza quando le nostre forze o il nostro giudizio non sono sufficienti. Gesù ha visto questo bisogno in noi e lo ha sentito in se stesso. Egli è la grande immagine della dignità umana, che ci ha insegnato a vederci nell’amore, cioè veramente. Il genio di papa Francesco è stato quello di comprendere il significato sacro di ogni incontro umano».

Nelle sue riflessioni spesso ha guardato alla religione come a un modo per accedere a una verità fondamentale, un modo per ragionare, per essere informati e anche per percepire il mondo. Pensa che la religione possa contribuire anche a una riabilitazione culturale del pensiero come forza critica e creativa nella società?

«La realtà è una cosa sfuggente e proteiforme, essendo, credo, minuziosamente rispondente a Dio. Il nostro pensiero può deliziarsi dell’infinita ricchezza della complessità umana, che è meglio trattata nei termini della teologia. In un Cosmo fatto e custodito da Dio, noi siamo i percettori a cui si rivolge questo miracolo senza fine. Per aiutarci in questo ruolo, la Chiesa ha le risorse della bellezza di ogni tipo, tra cui una lunga panoramica del pellegrinaggio umano e ricche letterature che hanno mantenuto vive voci sacre, molte delle quali antiche, pronte a sorprenderci e rinfrescarci ora. Papa Francesco ha incarnato la riverenza verso il comandamento dell’amore reciproco, lo standard rispetto al quale possiamo testare qualsiasi pretesa di essere cristiani. Noi e la teologia avremmo nuova vita se, come ha detto Papa Francesco, la teologia abbracciasse la Creazione vivente, prima di tutto il suo eroico, tragico, brillante ed errante capolavoro, l’umanità comune. L’abbraccio paterno di Francesco è alle persone così come sono, comprese le persone creative, che spesso sono viste come un gruppo marginale a sé stante, ma che hanno splendidi doni da offrire oggi come nel corso dei secoli».

Come Francesco lei è critica nei confronti della cultura dell’indifferenza e della retorica incapace di cogliere la complessità della realtà. Possono la Chiesa e la letteratura ridare profondità al nostro linguaggio morale?

«Per molto tempo è stata scoraggiata l’idea che la letteratura avesse qualche obbligo nei confronti della morale. Era considerata una presunzione, o una prova che lo scrittore non fosse intellettualmente sofisticato. I valori dovevano essere messi alla prova o invertiti, se l’argomento veniva affrontato. Credo che questa sia stata una purgazione preziosa per il suo tempo e che possa essere ancora una sana disciplina. Noi esseri umani siamo dei grandi ipocriti. Ma la morale sorge dalle società umane nel pensiero, nell’arte e nell’epica. È reale come il linguaggio o il senso del bello. Le sue migliori articolazioni danno forma alla storia. E c’è sempre la possibilità che l’eredità morale possa essere esplorata, ampliata, arricchita, dotata di nuove applicazioni, vista sotto una nuova luce. Abbiamo abbandonato questo progetto, o lo abbiamo lasciato a persone poco serie. Bisogna superare la paura di considerare il bene e la virtù come cose reali, degne di essere riconosciute. Gli esseri umani dipendono dalla cultura e dalla religione per orientarsi. Abbiamo fatto un lungo esperimento privandoci di entrambe».

Nel romanzo Gilead il personaggio del reverendo John Ames scrive una lettera al figlio, cercando di trasmettergli le lezioni della sua vita, la sua fede e le sue riflessioni sulla condizione umana. Cosa ne pensa dell’educazione come atto d’amore?

«Sono assolutamente d’accordo sul fatto che l’educazione sia un atto d’amore. Penso che insegnare sia naturale e gratificante per le persone come fare i genitori, e altrettanto importante per preservare e far progredire le abilità, le arti e i costumi che costituiscono la civiltà. Insegnare e imparare, a qualsiasi età, significa fare del bene, meritare e ricompensare la fiducia, onorare il valore».

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