L’eredità di William Klein, fotografo anticonformista
14 Settembre 2022Gianni Berengo Gardin L’occhio come mestiere
14 Settembre 2022Adelphi pubblica “Canzone nera” uscita postuma in Polonia nel 2014. Con diversi componimenti scritti in età giovanile
In caso di pericolo, l’oloturia si divide in due. Così ci ha insegnato Wis?awa Szymborska in Autonomia : «Morire quanto necessario, senza eccedere. / Ricrescere quanto occorre fra ciò che si è salvato». Szymborska — come molti scrittori — ha reciso da sé le membra dei suoi esordi, salvando il necessario sul quale è poi ricresciuta la poesia lieve, ironica e immediata che abbiamo imparato ad amare. In Italia (benché per Scheiwiller fosse apparsa già nel 1993 La fiera dei miracoli ), dopo il premio Nobel del 1996, che l’ha resa popolarissima come già in Polonia, sua patria. Non ha mai voluto pubblicare la raccolta di 39 componimenti scritti fra il 1944 e il 1948 rimasta inedita, né ristampare (tranne qualche poesia sparsa) le due raccolte del 1952 e del 1954, scritte quando aveva aderito — come molti intellettuali polacchi di sinistra, sedotti dal sogno del comunismo — al dogma esiziale del realismo socialista. Le ha condannate, scartandole («scelgo scartando» scriverà).
È dunque un’operazione meritoria e quasi didattica la pubblicazione da parte del suo editore Adelphi diCanzone nera , uscita postuma in Polonia nel 2014. Tradotta da Linda Del Sarto (una nuova voce per la poetessa, fin qui ottimamente volta in italiano da Pietro Marchesani), è accompagnata da un documentato saggio di Andrea Ceccherelli, già autore di svariati volumi su Szymborska, Il lungo cammino della giovane Szymborska verso il Nobel. Questi juvenilia illuminano la genesi del suo mondo poetico, ma anche il modo in cui davvero il genio fiorisce. A differenza di quanto vuole il luogo comune “poeti si nasce”, è un cammino laborioso, disseminato di silenzi, cadute e inciampi, nel corso del quale immagini, parole, ritmo, grammatica e tono devono depurarsi delle incrostazioni del tempo presente, delle influenze e delle intenzioni, per diventare quelle gemme cristalline che, fin dalla raccolta Appello allo yeti ,del 1957, sembrano nate
senza studio né sforzo.
Le poesie di Canzone nera — paratassi, frasi brevi con soggetto e verbo — sono dominate dal tema della guerra, né potrebbe essere diversamente, poiché composte negli ultimi anni del conflitto e nei primi della ricostruzione. Il paesaggio è quello bellico e post-bellico: boschi dove si è combattuto, città in fiamme, macerie, «corpi bambini sprofondati nel sangue rappreso», soldati, convogli di ebrei deportati, monelli con le molotov e i gomiti rattoppati, carri del carbone, strade e cortili desolati (ma anche i primi segni di rinascita: un cinema, una sala dove si balla sbronzi al suono del sax). L’Io che dice e vede è indeterminato (tranne che nel malinconico ciclo diJanko il Musicante , dedicato all’amato, morto partigiano): ma nell’ Autobiografia del giorno si fa prosopopea. Solo attribuendolo al giorno può osare un programma di vita: «Voglio — prima che Io sia ieri — guardare / Voglio — prima che Io siadomani — discernere». Prevale un Io collettivo — la generazione dei figli della guerra — che poi, con l’inizio dell’impegno politico di Szymborska (nel 1947-48 era segretaria di redazione al Ministero per l’Informazione e la propaganda), diventa un Noi. Sono versi acerbi di una donna poco più che ventenne, dal tono indeciso, talvolta sentimentali («Un filo di lacrime di cera»), ideologici («Così da noi la vita si compie. / così da noi si compie il mondo») o didascalici («Il mio dire sarà sempre come il pathos. Troppo poco», inCucire la bandiera ). Ma già balenano associazioni lunatiche («arruffare il cielo», «una congiura di nuvole», la morte «dà parole di sapone») e versi fulminanti come quelli della maturità («la dura grafia degli addii»). Compaiono in germe temi, attitudini (il gusto del paradosso e della negazione, non ancora l’incanto né la disperazione che riterrà suoi segni particolari), parole chiave (lo “stupore”), immagini destinate a ritornare — come la casa devastata dal bombardamento di cui restano, assurdi, solo alcuni oggetti (nel volume postumoBasta così è uno specchio, appeso ancora al sesto piano).
Ma quello che soprattutto interessa è l’interrogativo che la muove: sulla lingua e sul senso stesso della poesia. Al netto rifiuto del disimpegno effusivo («Niente lirismo. Per le pietre e per i sogni») si accompagna il dubbio sulle possibilità della letteratura di poter raccontare i crimini compiuti, e dunque la Storia. È dominante inCerco la parola , la prima poesia pubblicata da Szymborska, nel 1945, poco dopo la liberazione di Cracovia da parte dell’Armata Rossa. Trovò il coraggio di affidarla, con poche altre, al redattore del giornale Dziennik Polski .Dieci anni dopo, affermò che se fossero state rifiutate, non avrebbe più osato mostrare a qualcuno le sue poesie, e avrebbe rinunciato a scrivere. Invece, pur tagliata, Cerco la parola fu pubblicata, avviando la storia che conosciamo.
È un grido contro lo scandalo della guerra. Szymborska cerca una parola che «deve essere un vulcano», che «picchi, spezzi e abbatta come terribile ira di Dio, come odio che scotta». «Voglio una parola cruda / che sia impregnata di sangue… Che descriva più precisa e chiara / chi erano tutti loro — tutto ciò che è stato ». Ma è anche un grido di impotenza. «Perché ciò che sento dire / ciò che se ne scrive — non basta più. / Non è mai bastato».
Il grido si infrange contro la sua stessa coscienza. Poco dopo, le domande di alcuni lettori che non avevano compreso il senso di Una domenica a scuola prima la paralizzano (non scrive per due anni), poi la spingono altrove. La sua poesia dovrà essere semplice — subito comprensibile a tutti. Abbandona l’idea di «trasformare il passato in epopea », per l’antiepica della vita quotidiana. Non parlerà più di guerra, di Polonia, di politica, ma delle cose qualunque della vita di tutti. L’amore, gli animali, gli oggetti, la morte. E «questa parola», che descrive «precisa e chiara chi siamo, l’avrebbe trovata.
L’autrice
Wis?awa Szymborska (1923-2012) è considerata la più grande poetessa polacca della storia. Premiata con il Nobel per la letteratura nel 1996 e con numerosi altri riconoscimenti, è una delle poetesse più amate dal pubblico di tutto il mondo Le sue opere sono state tradotte in varie lingue