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14 Febbraio 2024di Paolo Giordano
A dicembre ho trascorso alcuni giorni in Israele e Cisgiordania, riportandone una sensazione cupa di inesorabilità. La sensazione che in Israele il rumore interno prodotto dal trauma del 7 ottobre e dal sequestro degli ostaggi fosse così forte da sovrastare qualunque richiamo alla ragionevolezza e alla misura, qualunque invito alla proporzionalità potesse arrivare da fuori, non solo in un governo che già sapevamo sfrenato, ma anche in un’ampia parte della cittadinanza moderata.
Non mi sembra cambiato molto da allora. Ciò che è cambiato è il numero di vittime nella Striscia, quasi raddoppiato, ormai verso la soglia di trentamila. E quella che allora veniva ancora chiamata dai più «offensiva di terra», ora viene indicata più frequentemente come «rappresaglia» o «genocidio». L’appropriatezza o meno dei termini non è questione di importanza secondaria, ma non è ciò su cui voglio ragionare qui, perciò userò il termine più neutro di «massacro». C’è stato un massacro, a cui è seguito un altro massacro, che continua. Su questa limpida realtà fattuale non c’è molto da discutere. In questo momento la popolazione di Gaza si trova schiacciata nell’ultima porzione di terra accessibile, e viene attaccata anche lì.
Q ualche anno fa, per il compleanno, mi regalarono uno Swatch, un modello tutto nero con le lancette che si illuminano al buio. Come orologio ha qualcosa di essenziale che mi piace, ma ha anche il difetto di essere molto rumoroso. Di notte riesco a sentirne il ticchettio delle lancette anche se si trova in un’altra stanza: se succede, non riesco a concentrarmi su nient’altro, solo sul rumore dei secondi, mi toglie il sonno. Più volte mi è capitato di dovermi alzare per seppellire lo Swatch sotto strati di vestiti, e di addormentarmi soltanto dopo averlo zittito. Questo nostro presente al riparo dai massacri, e tuttavia esposto alla consapevolezza dei massacri, mi ricorda una lunga notte con lo Swatch nella stanza.
La conta dei morti prosegue, incessante, mentre siamo svegli e mentre dormiamo, mentre mangiamo e mentre lavoriamo, mentre non facciamo nulla e mentre guardiamo Sanremo. Una parte di noi ne è consapevole e si adopera al massimo per sotterrare l’orologio fra gli strati di vestiti. Il ticchettio è ovattato ma si sente ancora, appena insufficiente a non renderci del tutto disfunzionali nelle nostre attività quotidiane.
Ma gli artisti, si sa, sono i più inquieti fra noi. La loro natura vibratile li spinge a reagire, quanto meno ad additare la realtà che accade, a nominarla secondo la propria sensibilità. Ghali e Dargen D’Amico lo hanno fatto a Sanremo, a modo loro. Non è esattamente ciò che ci aspettiamo dagli artisti? Che reagiscano soggettivamente al reale, che sappiano vibrare al posto nostro, anche quando noi siamo contratti e muti? Dunque, in questo momento, gli artisti danno testimonianza di un disagio molto più diffuso di quello che traspare da una strana, acquiescente narrazione collettiva: il disagio di vivere assistendo a un massacro.
Che è anche il disagio della nostra impotenza. Perché se falliscono i richiami degli organismi sovranazionali e le missioni del governo americano, se fallisce qualsiasi forma di pressione esercitata fino a qui (sebbene insufficiente, diranno molti, c’è comunque stata); se fallisce tutto questo, vuol dire che i nostri messaggi di pace e i nostri cessate il fuoco, tutte le nostre mozioni valgono meno di vento nel vento. Sono inaudibili là dove vorremmo che venissero udite, nemmeno ci arrivano. Non fanno che ricordarci la nostra assoluta irrilevanza. Il silenzio di molti nasce anche da questo, non dall’approvazione o dalla convenienza, ma da un attonito senso di superfluità.
Nelle scorse ore ci siamo infervorati su Ghali e Dargen D’Amico, poi sul pragmatismo di Mara Venier, illudendoci così di parlare di Gaza e di quelle centinaia di migliaia di persone in trappola a Rafah. Non stavamo parlando davvero di loro: stavamo continuando a parlare di noi, soltanto di noi e di cosa significa vivere assistendo lucidamente a un massacro. Ma non è un buon motivo per smettere di farlo. Né tanto meno per impedirlo. C’è in gioco un principio ancora più rudimentale della libertà d’espressione: ovvero che è inutile e dannoso tentare di arginare la realtà. Non si può stabilire dove finisce lo spettacolo e dove inizia il mondo, che da qui a lì sono solo canzonette e laggiù avviene il massacro. Nessuno di noi è così ingenuo da crederci, e nessuno è nemmeno disposto a farlo.