Chi più di Taylor Swift incarna oggi il mito del Sogno americano? All’apparenza nessuna e nessuno, almeno secondo i numeri che i media riportano di continuo. Numeri e ancora numeri. Come se non si potesse fare altro che questo quando si parla di lei, magnificare le dimensioni del fenomeno.

Ci viene così ripetuto allo sfinimento che il suo ultimo tour ha contribuito alla crescita del Pil statunitense per quasi cinque miliardi di dollari, arrivando in un caso, coi balli dei suoi fan, a provocare un miniterremoto di magnitudo 2.3 in uno stadio di Seattle. Oppure che ha venduto duecento milioni di dischi e vinto dodici Grammy, l’equivalente degli Oscar per la musica. Perfino la sua indubbia intelligenza ha un numero, seppure di corridoio. Si parla di un QI intorno ai 160, lo stesso di Albert Einstein e Bill Gates. Lo ha anche l’intelligenza media dei suoi fan: un più modesto 111, ma comunque superiore a quella dei fan di altre popstar. Numeri che ci parlano di un successo con scarsi precedenti, ma presi a sé ricordano quel che diceva Mark Twain delle statistiche. Servono come i lampioni a un ubriaco: più per sostegno che illuminazione. Dicono cioè poco su chi sia in effetti Taylor Swift e ancor meno perché sia amata di un amore incondizionato. Eppure cosa sia un amore incondizionato lo ha spiegato lei stessa qualche anno fa nel mezzo di un’apparizione televisiva, cantando a sorpresa un vecchio brano di Leo Sayer, I Can’t Stop Loving You. «Amare qualcuno al punto di amarlo anche qualora non dovesse amarti più. Questo è l’amore incondizionato» disse prima di esibirsi, ricordando come cantasse quella canzone a squarciagola da giovanissima, guidando per Nashville, la città della musica, il luogo in cui la favola è iniziata.

A star is born

Ed è più giusto definirla così – una favola – anziché un esorbitante dimostrazione del Sogno americano. Possiamo disquisire se sia una distinzione di lana caprina, se esista una reale differenza tra l’una e l’altro, ma un dettaglio è certo. Se il Sogno americano riduce il perseguimento della felicità a una mera affermazione di sé, le favole si concentrano sul racconto, sulle strade lastricate di ostacoli che è necessario percorrere per arrivare a vivere felici e contenti.

Proviamo dunque a raccontarla, questa favola. C’era una volta in Pennsylvania una talentuosa bambina di undici anni dai capelli biondi. Si chiama Taylor e vuole scrivere e cantare canzoni, e poiché è a Nashville che si decidono i destini della musica country, chiede alla madre di portarla in Tennessee, un viaggio di 650 miglia. I genitori la considerano una creatura speciale e la sostengono in tutto da sempre, anche perché in casa i mezzi non mancano. Dunque acconsentono. A una condizione però: una volta sul posto, dovrà destreggiarsi da sola. Nessun problema, per lei. Arrivata a destinazione, bussa spavalda alle porte delle case discografiche dicendo Ciao, mi chiamo Taylor, vorrei un contratto, questo è il mio demo, chiamatemi se vi piace. Nessuno chiama, ovviamente. Ma lei non si arrende. Da quell’esperienza capisce anzi che per emergere deve fare di più, essere diversa. Tornata a casa, riprende a scrivere canzoni, suona la chitarra ogni giorno, la suona per tante di quelle ore che le sanguinano le dita. Finché, due anni dopo, un contratto arriva. In effetti è soltanto quel che si chiama un “developement deal” ma viene dalla RCA, una major della musica country.

In sostanza, l’etichetta si impegna a seguire Taylor fin quando non sarà giudicata pronta per il debutto. A questo punto accadono due cose. La prima è che la famiglia decide di trasferirsi a Nashville per agevolare Taylor. Il padre, ex agente di cambio, può svolgere la sua attività ovunque, ma spostarsi come niente da uno stato all’altro per consentire alla figlia di vivere al meglio la sua avventura non è certo cosa da tutti i giorni.

La seconda arriva in un secondo momento, quando Taylor, che ha ora quindici anni, rifiuta di rinnovare il suo contratto perché la RCA non le consente di registrare le canzoni da lei composte. Saranno proprio questi due momenti a dar forma alla favola che dai precocissimi esordi della bambina di West Reading, Pennsylvania, porterà alla recente copertina di Time in cui Taylor Swift – ormai adulta e eletta Persona dell’anno – sfoggia un body nero, le labbra tinte come sempre di un rosso scarlatto e il gatto Benjamin Button disteso sulle sue spalle come una sciarpa. Col tempo, quei due momenti iniziali hanno infatti assunto il valore di una costante.

Da un lato, Swift ci è sempre apparsa baciata dalla fortuna, una predestinata cresciuta in una famiglia abbiente che ha potuto assecondarla in tutto e che tuttora la segue ovunque, partecipando alla gestione di un’immensa macchina da spettacolo.

Dall’altro, l’abbiamo vista emanciparsi da un’industria – quella della musica e dei media in generale – che si serve senza tanti scrupoli degli artisti, specie se donne.

Privilegio e riscatto

Per nulla contenta che Spotify non le versasse che poche briciole, è stata – tanto per dirne una – la prima grande popstar a aprire un contenzioso diretto con il colosso svedese dello streaming: «La musica è arte e l’arte è importante e rara. Le cose rare hanno un gran valore e per questo vanno pagate».
In questa chiave vanno inoltre intese le riedizioni dei vecchi album, un lungo progetto di riappropriazione iniziato quando l’etichetta che deteneva i diritti della sua opera è stata ceduta a un manager responsabile, secondo Swift, di “bullismo incessante e manipolatorio” nei suoi confronti. Queste due costanti – il privilegio e il riscatto – sono anche all’origine della sufficienza con cui spesso viene giudicata, forse perché una sembra sminuire l’altra, rendendo apparentemente scontato il lieto fine della favola. Ma nulla è banale in lei, malgrado siano in molti a dipingerla come una Madonna annacquata, una principessina disneyana, un personaggio sintetico concepito per piacere a tutti e non infastidire nessuno.

In realtà, il vero tratto distintivo, l’elemento di novità, che è poi una componente cruciale del suo successo, anzi dell’amore incondizionato dei suoi seguaci, consiste proprio nel proporsi come una persona vera prima ancora che personaggio. Certo, sul palco la vediamo indossare una varietà sfolgorante di costumi, interpretare ruoli diversi, ma quei ruoli sono sempre proiezioni di un racconto intimo, di una favola tutta personale che l’artista scrive da sempre, oppure trasfigurazioni ironiche del personaggio che i media hanno provato a cucirle addosso, violentando la sua persona.

Le allusioni autobiografiche presenti nelle canzoni le hanno attirato critiche di vario tenore, da quella di interpretare la musica come un regolamento di conti in pubblico allo stigma decisamente più fastidioso di essere una volubile mangiauomini che salta da relazione amorosa all’altra solo per avere materiale su cui scrivere e fare soldi. “Ho una lunga lista di ex amanti / ti diranno che sono pazza / ma mi è rimasto uno spazio vuoto, baby / e ci scriverò il tuo nome”, recita il ritornello di Blank Space, brano in cui gioca proprio con questo ritratto distorto.

La migliore delle amiche

Persona e personaggio si sovrappongono di continuo, in un gioco delle parti in fondo non dissimile da quel che è avvenuto in letteratura negli ultimi decenni con l’autofiction, salvo per la scala ovviamente, essendo gli scrittori evidentemente lontani anni luce dall’esposizione di una popstar. In questo, Swift ha colto alla perfezione lo spirito del presente. Nessuno meglio di lei ha compreso che la partita non si decide più nel mescolamento di realtà e finzione, bensì in una definizione più sfumata del confine che separa pubblico e privato.

Non per niente ha sempre cercato una comunicazione diretta con i fan, proponendosi non come una stella da adorare, ma come la migliore delle amiche, una persona cui volere bene. Tutta apparenza? Forse, ma stiamo pur sempre parlando di una favola. Allo stesso modo ha poco senso rimproverarle di essere innocua o insipida. Chi lo pensa non ha ascoltato davvero le sue canzoni, mai così semplici come l’armonia spesso perfetta tra melodia e testo le fanno sembrare.

Racconti d’ombre che volgono immancabilmente in luce soprattutto per la loro bellezza, questo di fatto sono. Il che, piaccia o no, fa di lei una vera artista. Non lo sarà alla maniera maledetta e trasgressiva in voga nel secolo scorso, ma i tempi, si sa, cambiano. E se nel Novecento abbiamo imparato che il male può essere banale, oggi, grazie a Taylor Swift, scopriamo che è anche inutile.

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