BRUXELLES – Il Patto di Stabilità non può essere sospeso anche nel 2024. Senza un accordo, dal primo gennaio comunque tornerà in vigore il “vecchio” Patto. Il messaggio che Bruxelles lancia nelle ultime ore per rispondere alle richieste del governo italiano, è netto. Giorgia Meloni non può attendersi un’altra mano tesa. L’Italia deve fare i conti con la sua situazione. E capire che non può tirare la corda ulteriormente. Si trova in un cul de sac e ha un solo modo per uscirne: stringere un’intesa con i suoi “nemici”, il francese Emmanuel Macron e lo spagnolo Pedro Sanchez. Dovrà chiedere aiuto a loro e non agli “amici” sovranisti.
Lo stato delle trattative sulle nuove regole fiscali e sulla proposta avanzata ad aprile scorso dalla Commissione europea è al momento in stallo. Nessun passo avanti. Al punto che nessuno esclude ormai la possibilità che tra quattro mesi vengano riattivate le regole sospese e considerate superate. La Germania e buona parte degli alleati “frugali” (dalla Finlandia all’Austria fino alla Repubblica Ceca) stanno scommettendo esattamente su questa ipotesi. Nella consapevolezza di formare una minoranza di blocco piuttosto efficace.
Le difficoltà italiane, poi, sono acuite dal contesto politico. In Spagna, ad esempio, difficilmente nascerà un esecutivo di centrodestra. Il socialista Sanchez (che sta gestendo il semestre di presidenza Ue) rimarrà molto probabilmente alla guida del suo Paese almeno fino a dicembre quando potrebbero tenersi nuove elezioni. A settembre poi si voterà in Olanda. L’alleanza rosso- verde di Timmermans è in vantaggio. Ma soprattutto l’impegno a favore della proposta Von der Leyen dell’attuale ministro olandese dell’economia aveva rotto il fronte dei “falchi”. Impegno che, appunto, non può essere più profuso.
L’Italia ha però bisogno della riforma del Patto. Senza la quale dal 2024 potrebbe precipitare in una spirale insostenibile per la destra meloniana. Già adesso le risorse per la prossima legge di Bilancio sono a dir poco esigue. Dal prossimo anno sarebbe costretta a procedere a colpi di “tagli” per ridurre il debito in eccesso di un ventesimo ogni anno. Stiamo parlando di una cinquantina di miliardi. Cifra insostenibile. Senza contare che a quel punto, in caso di turbolenze dei mercati sul nostrodebito pubblico, sarebbe complicato chiedere l’aiuto della Bce e del Tpi, ossia lo scudo antispread per l’acquisto di titoli di Stato. Un programma attivabile solo per i membri in linea con le regole fiscali. Sostanzialmente si entrerebbe in un territorio privo di difese. E la nostra montagna di debito pubblico sarebbe esposta alla speculazione deimercati.
L’unica chance per sottrarsi a questo destino oscuro è quello di stringere entro ottobre un’intesa con Spagna e Francia. Solo così la Germania potrebbe essere alla fine pronta ad accettare la riforma. Nella certezza che verrebbe comunque accolta una parte delle sue richieste: non la riduzione annuale dell’1 per centodel debito, ma una formula meno perentoria e molto tecnica che ormai a Bruxelles viene definita la “Mediazione danese”.
I contatti tra i tre ministeri dell’Economia sono stati già avviati. Eppure un punto di incontro ancora non si è materializzato. Prima della riunione dell’Ecofin informale che si terrà a metà settembre a Santiago de Compostela, Giorgetti, Le Maire e Calvino si sentiranno e si vedranno. Sarà il vero test della verità. La ministra spagnola, candidata alla presidenza della Bei, è pronta a formulare una mediazione. Ma proprio per la sua corsa deve accontentare Roma e Parigi senza scontentare Berlino. Insomma la variabile politica potrebbe pesare molto di più di quella tecnica. L’errore della presidente del Consiglio è stato quello di sostenere la campagna elettorale di Vox in Spagna contro Sanchez. E di litigare ad ogni piè sospinto con Macron. Ora deve rivolgersi a loro. Un vero contrappasso che fa capire quanto il fronte sovranista sia nella sostanza debole.
Madrid, comunque, presenterà una soluzione che in sostanza andrà in primo luogo incontro alle esigenze francesi. L’Eliseo, infatti, chiede in particolare che ci sia un percorso più soft per il rientro dal deficit che in Francia rimarrà alto almeno fino al 2025. Non viene invece considerata plausibile la richiesta italiana di una sorta di “golden rule” sui prestiti del Pnrr: ossia il loro scorporo dal calcolo del debito. Sarebbe un modo per indispettire ulteriormente la Germania e i suoi alleati. Viene anche giudicata una misura “miope”: lo scomputo varrebbe solo fino al 2026, poi quei 120 miliardi tornerebbero comunque nel gigantesco calderone del debito pubblico.
Il governo di Roma sarà quindi obbligato a fare buon viso a cattivo gioco pur di non ritrovarsi con l’acqua alla gola a partire da gennaio prossimo. Non è un caso che ormai nessuno inserisca come merce di scambio la ratifica del Mes. Lo fa solo Palazzo Chigi. Ma quel tempo sembra finito.
Senza un accordo, la Commissione Ue, alla fine del suo mandato, nel 2024 sarà flessibile. Ma appena si insedierà quella nuova, tutto cambierà. E ci vorranno almeno altri due anni per provare ad elaborare un’altra riforma. La via del “salvezza” economica dell’Italia assomiglia sempre più ad un vicolo strettissimo.