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28 Giugno 2025La politica oggi non è solo potere: è racconto, messa in scena, costruzione di immaginari. E Donald Trump è il protagonista assoluto di questo nuovo teatro globale. Ma cosa comporta tutto questo per la democrazia?
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un cambio di scena radicale nella politica internazionale. Le guerre e i conflitti sono sempre più raccontati come show. I leader si muovono come attori. Le parole non spiegano: emozionano, dividono, affascinano. In questo contesto, Donald Trump ha capito una cosa semplice ma potente: chi sa raccontare, vince.
Trump non è un presidente tradizionale. Non negozia come i politici classici, non spiega come i tecnici, non cerca di convincere con dati e grafici. Lui racconta. Ogni suo intervento è un pezzo di teatro. Ogni comizio, una cerimonia. Ogni tweet, una battuta da palcoscenico. Usa un linguaggio elementare, pieno di ripetizioni e frasi secche, ma con una forza che arriva dritta alla pancia delle persone.
Alcuni studiosi hanno addirittura provato a “ricomporre” i suoi tweet in forma di poesia. Ne viene fuori una specie di canto moderno, fatto di frasi brevi, iperboli e immagini forti. Trump non argomenta: dichiara. Non analizza: grida. Il suo stile ha più a che fare con la pubblicità che con il dibattito democratico. Ma proprio per questo funziona.
Una politica fatta di miti, non di programmi
Trump non si presenta come un amministratore, ma come un salvatore. Vuole “rendere di nuovo grande l’America”, come se ci fosse da recuperare un’età dell’oro perduta. Parla come un predicatore, agisce come un personaggio epico. I suoi nemici diventano mostri, i suoi alleati eroi. È una visione del mondo binaria e mitica: bene contro male, dentro o fuori, America o caos.
Questa retorica prende in prestito molto dalla religione: non tanto per convinzione spirituale, ma per efficacia simbolica. In fondo, anche lui si presenta come portavoce di una “verità” superiore. Una verità che non si basa su fatti verificabili, ma su credenza e appartenenza.
Una Corte Suprema al suo servizio?
La sua forza non si limita però alla comunicazione. Proprio in questi giorni, la Corte Suprema ha emesso una sentenza che segna un passaggio cruciale. Con una decisione molto controversa, ha stabilito che i giudici federali non possono più bloccare a livello nazionale gli ordini esecutivi del presidente. Una vittoria netta per Trump.
Questo vuol dire che, per esempio, il suo ordine contro lo ius soli – cioè il diritto alla cittadinanza per chi nasce negli Stati Uniti – potrà essere applicato in gran parte del Paese, anche se molti Stati l’hanno contestato. La magistratura non potrà più intervenire come prima. E questo, secondo molti osservatori, mette in discussione l’equilibrio tra i poteri.
Una democrazia sotto pressione
Trump afferma di voler “liberare” il Paese dai giudici ribelli, ma in realtà il suo approccio indebolisce proprio quei meccanismi che dovrebbero proteggere i diritti fondamentali. L’idea che la legge valga per tutti, a prescindere da chi è al potere, rischia di venire meno. E la sua comunicazione, con frasi come “i peggiori criminali vengono qui a fare figli”, alimenta un clima di paura e divisione.
Anche sul piano internazionale, la sua strategia è simile: attacca, minaccia dazi, impone scelte unilaterali. Ha colpito partner storici come l’Unione Europea, ignorando le regole del commercio internazionale. Per lui, ogni trattativa è un campo di battaglia. Ogni scontro, una scena da dominare. La diplomazia diventa show. E chi non si adegua, rischia di essere travolto.
Una risposta che ancora non c’è
Ma proprio per questo, serve una risposta nuova. Non solo proteste o analisi tecniche. Serve un nuovo linguaggio. Una narrazione capace di parlare alle persone senza manipolarle. Una politica che non si limiti a contrastare, ma sappia costruire visioni forti e inclusive. Perché la vera sfida del nostro tempo non è solo “chi comanda”, ma chi racconta il mondo. E con quali parole.
Una risposta che ancora non c’è. E che non arriverà finché ci limiteremo a reagire, anziché immaginare. Oggi abbiamo bisogno di storie capaci di competere con quelle che vogliamo superare, di parole che accendano possibilità, che non mentano ma ispirino. C’è bisogno di una nuova estetica della politica, che ricomponga razionalità e immaginazione, responsabilità e speranza.
Abbiamo bisogno di poeti, di scrittori, di artisti — lo ha detto con forza anche Papa Francesco, ricordando che «in questo tempo di crisi dell’ordine mondiale, di guerre e grandi polarizzazioni […] abbiamo bisogno della genialità di un linguaggio nuovo, di storie e immagini potenti». Non per abbellire la realtà, ma per trasformarla.
Perché nel teatro del mondo, chi non sa raccontare il futuro è destinato a essere messo a tacere. E oggi più che mai, il compito della democrazia è anche questo: trovare la voce giusta per non scomparire.