Bitter rivals. Beloved friends. Survivors.
3 Luglio 2023La giungla dei mille contratti 4 milioni sotto il salario minimo
3 Luglio 2023Tunica islamica, Air Jordan e voli low cost per l’Algeria. Il rifiuto di una generazione che non vuole essere francese
di Stefano Montefiori
I più duri con i francesi di origine araba sono talvolta altri francesi di origine araba. Come Saalah Gotti, un ragazzo marsigliese che su TikTok (cioè uno dei social media indicati da Macron come corresponsabili del disastro) si sfoga: «Postate le vostre imprese su Internet, ci ridete sopra, e gli altri che cosa possono dire di noi? Che siamo in Francia ma non consideriamo la Francia come il nostro Paese e ci permettiamo di distruggerlo. Ci sabotiamo da soli, ancora una volta».
E un altro, Riadh Senpai: «Persino al bled (il luogo di origine, ndr) non ci possono più vedere. Siamo una vergogna. Anche in Algeria, in Tunisia, in Marocco, ormai ci odiano perché screditiamo pure loro. I nostri nonni, forse i nostri padri erano immigrati, noi no! Siamo francesi frère (fratello, ndr), ma stiamo dando ragione a tutti quelli che ci detestano. E adesso che cosa succederà? Che se va bene ci resteranno solo gli occhi per piangere. È finita».
Nahel Merzouk, 17 anni, francese di Nanterre con origini algerine, è stato ucciso da un poliziotto martedì 27 giugno. L’emozione è stata enorme in tutta la Francia, il presidente Emmanuel Macron si è schierato dalla parte dei famigliari di Nahel condannando «il gesto imperdonabile» del poliziotto, che è finito in prigione accusato di omicidio volontario. Ma il clima nel Paese è già cambiato.
Dopo sei giorni di devastazioni, 4.500 auto incendiate, centinaia di negozi saccheggiati e distrutti e 3.300 arresti, quel che emerge non è più solo la violenza e il razzismo di parte delle forze dell’ordine, ma anche la mancata integrazione — c’è chi la chiama schizofrenia — di tanti francesi che frequentano la scuola francese, parlano francese, lavorano tra francesi, eppure si sentono stranieri in casa loro, una casa che sono pronti a devastare e distruggere.
Sul perché questo accada, politici, sociologi e intellettuali si accapigliano da anni, ma la tragedia di Nahel e i saccheggi che l’hanno seguita rendono ancora più profonda la frattura tra «i francesi frutto dell’immigrazione», come si dice, e «i francesi» e basta, come anche i primi indicano i bianchi.
È una storia che comincia con la decolonizzazione e che non è mai finita. È una storia che ha il suo momento più spaventoso ed estremo con gli attentati islamisti del 2015, commessi da terroristi in maggioranza francesi, ma che percorre la società ogni giorno, a gradi diversi di intensità, in modo sfibrante, da decenni.
Banlieue: il falso mito
La storica Fourcaut:
la mappa dei disordini non rispecchia quella dei quartieri più poveri
Mai come in questi giorni il modello universalista e assimilazionista francese sembra avere fallito. Rispetto al multiculturalismo all’anglosassone (ognuno conserva le proprie tradizioni di partenza, comunità distinte vivono fianco a fianco) l’universalismo francese è più ambizioso: quali che siano le vostre origini, siete chiamati a fondervi nello stampo francese. È questa l’origine ideologica, nel 2004, della legge che proibisce i segni religiosi — il velo islamico, per parlare chiaro — nelle scuole.
Solo che più la Francia chiede ai suoi figli di fondersi e di essere francesi fino in fondo, più molti di loro si ribellano. Tanti Mohamed o Aïcha si vestono all’occidentale in tuta Nike o Under Armour, o portano le Air Jordan, ma la abbinano alla tunica islamica, come sabato ai funerali di Nahel. Da mesi presidi, professori e ministro dell’Istruzione dibattono se vietare nelle scuole, dopo il velo, anche il qamis (il camicione lungo) per i ragazzi e la abaya per le ragazze. Sono segni religiosi, forse. Segni di appartenenza e distinzione, sicuramente: siamo tra voi, ma non siamo come voi.
È impossibile attribuire le maggiori responsabilità di questa mancata integrazione. Va ricordato che nel 2017 un rapporto del «Difensore dei diritti» (organismo statale) ha concluso che «un giovane dall’aspetto arabo o nero ha una probabilità 20 volte più alta di essere controllato dalla polizia» e che dal 2006 una legge (mai applicata) obbligherebbe le imprese con più di 50 dipendenti a esaminare solo curriculum anonimi (in modo che i Mohamed e le Aïcha non vengano discriminati). In certi, non tutti, quartieri di periferia il tasso di disoccupazione dei giovani tocca il 40 per cento (si ferma al 7 su scala nazionale per tutte le fasce di età).
Eppure la povertà e la disoccupazione non spiegano tutto, come diceva ieri al Corriere l’ex premier socialista Manuel Valls. La storica della Sorbona Annie Fourcaut, specialista delle banlieue, dice che la mappa dei disordini di questi giorni non corrisponde affatto a quella della rivolta del 2005: allora erano coinvolti solo i quartieri poveri, oggi le violenze sono ovunque, da Parigi a Marsiglia.
Le parole più chiare e severe le ha pronunciate, ancora prima di questa rivolta, un’altra francese di origine araba, l’insegnante e saggista Fatiha Agag-Boudjahlat. «Quando mia madre è arrivata in Francia non portava il velo e non parlava neppure l’arabo, cercava di integrarsi. Noi tornavamo a visitare i parenti in Algeria una volta ogni tre anni quando andava bene. I miei nipoti ci vanno di continuo, tre volte l’anno, con i voli low cost. Vivono in Francia ma il sistema di valori, l’orizzonte, è l’Algeria. Non si sentono francesi perché i loro genitori non parlano che del bled, il paese natale in Algeria. I ragazzini pensano che l’Algeria sia il paradiso in terra e nessuno insegna loro ad amare anche la Francia. Io che ci provo vengo chiamata “araba di servizio”».