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20 Maggio 2024Novecento L’autore lavorò per l’Einaudi dal 1947 al ’63 e poi di nuovo dal ’78 all’83: ora Quodlibet ne pubblica i «pareri», dai quali emerge la mappa dettagliata del suo gusto letterario e del suo rigore intellettuale
di Paolo Di Stefano
Ironie feroci ed entusiasmi selezionatissimi
dentro la fucina editoriale di un poeta esigente
Ecco l’«egemonia culturale» di sinistra in azione. Protagonista Franco Fortini: per di più nel luogo sacro dell’egemonia stessa, cioè la casa editrice Einaudi, di cui il poeta critico saggista traduttore fu consulente in due fasi. Ce lo spiegano Riccardo Deiana e Federico Masci, che raccolgono in un volume i Pareri editoriali per Einaudi (Archivio Franco Fortini/Quodlibet).
Il primo periodo va dal 1947 al 1963; il secondo dal 1978 al 1983. Tra gli anni Quaranta e i Cinquanta, Fortini partecipa alle riunioni del mercoledì a Torino, dove esprime opinioni a voce (come è testimoniato dai verbali), e per un paio d’anni (1959-1961) dirige la Piccola Biblioteca Einaudi (la Pbe) impegnandosi nella programmazione più che nella schedatura. Questo spiega perché nella prima pur lunga fase i pareri scritti sono quantitativamente sparuti rispetto alla seconda.
La prima proposta di Fortini, inoltrata nel dicembre 1947 (vivo Cesare Pavese, l’interlocutore più autorevole con l’editore), riguarda un libro del tedesco Alfred Döblin, descritto come «tentativo di un “esame di coscienza” narrativa di Eine Deutsche Revolution fallita». Nel giro di due anni, con il titolo Addio al Reno, uscirà la traduzione realizzata a quattro mani in collaborazione con la moglie Ruth Leiser, traduttrice svizzera che, ventenne, aveva conosciuto Franco in un campo di lavoro zurighese nel 1944. Va detto che la figura di Ruth riappare spesso dietro le letture e le proposte di Fortini, e non solo quelle di area tedesca. In definitiva, non saranno molti i libri consigliati da Fortini e accolti in catalogo, a dimostrare quanto fosse serrata e molteplice la selezione dei titoli, dietro ai quali avvertiamo il confronto incrociato all’interno della casa editrice. Del resto, è lo stesso Fortini ad auspicare spesso un «supplemento di lettura».
È davvero straordinario, visto oggi, l’impegno con cui viene condotto il lavoro di scouting nel settore poetico dal 1978 in poi, quando Fortini propone all’editore di avviare, all’interno della collana Bianca di poesia, la serie dei Nuovi poeti italiani, cioè raccolte miscellanee di autori inediti su cui scommettere con coraggio. Alla valutazione partecipano, come consulenti esterni, Pier Vincenzo Mengaldo, Alfonso Berardinelli e Walter Siti, continuamente invocati nelle schede per uno scambio di opinioni. Il lettore, osserva Fortini, è in questi anni un soggetto «che scrive e non solo che legge»: è quel popolo «che diffama Einaudi come casa vegliarda e nemica del progresso», e che necessita finalmente di ascolto e di accoglienza.
Pur consapevole del rischio di «mettere su un fastidiosissimo e pericoloso allevamento di pulci liriche», eccolo all’opera con una dedizione tale da mostrare l’importanza «politica» che Fortini attribuisce al lavoro editoriale nella sua pratica quotidiana. In questo senso, considerando le evidenti idiosincrasie, colpisce il carattere aperto delle sue considerazioni, tutt’altro che militanti o, tanto meno, ortodosse. Sicché il tono apparentemente più tranchant e intollerante lascia quasi sempre spazio a un atteggiamento possibilista, come a creare quella sorta di contraddittorietà interna che è anche uno dei tratti principali del poeta e del critico. Non per questo mancano i casi di recisa chiusura. Come quando Fortini liquida come «radicalmente bischero (…) e certamente inguaribile» l’ignoto autore di una raccolta dall’ambizioso titolo Cicli mestruali e tostapane: al quale Fortini dà però il merito di ricordare quanto fosse insopportabilmente «cabarettistica semi-squadristica» la neoavanguardia.
Più spesso la stroncatura finale viene preparata da bendisposte ponderazioni intermedie e così la progressione argomentativa risulta come un va-e-vieni curiosamente ondivago. Come nel caso del «neocrepuscolare» triestino Franco Ferranti: «Ma tutto è così slombato, vacillante, di ingenuo rifacimento dell’ingenuità. Non dico che questo patetismo, questo cuore-in-mano, non abbiano un loro senso, non siano, in qualche modo, persino attuali (…)». Tutto viene preso estremamente sul serio, talvolta sviscerato, collocato nel giusto contesto storico e contemporaneo, accostato ai modelli di riferimento, anche quando forse basterebbe un No senza troppi giri di parole. L’«innario» di Carla Perotti, forse «patronata» da Geno Pampaloni, appare di «stretta provenienza heideggeriana» ma si affianca anche a Mario Luzi, rivela qua e là dalle accensioni «notevoli», ma in definitiva è di un sincretismo «precotto». In altri casi, dopo ampia argomentazione, Fortini conclude olimpicamente: «Scrive da nonno». Oppure rimprovera l’«inutilità», cioè l’assenza di motivazioni profonde.
A proposito di patrocini, si intuisce una divergenza malcelata ma quasi sistematica rispetto ai gusti di Natalia Ginzburg, proponente di versi che a Fortini paiono «un po’ muffiti» o di pagine in prosa «noiose, pulite stantie». E lo sentiamo esclamare, in riferimento a un libro proposto da Antonio Porta: «Ah, che tristezza», e poi: «La politica delle alleanze dilaga». Da notare le riserve («sospetto di manierismo») sul dialettale romagnolo Raffaello Baldini, auspicato da Dante Isella e da Mengaldo e destinato comunque a entrare trionfalmente nella Bianca. Dubbi anche sul «maledetto» toscano Attilio Lolini («poesie sgradevoli ma non vili (…) ispirate a modelli di orrore burlesco e nerastro americano»): testi che secondo Fortini starebbero meglio da Guanda ma che usciranno più in là per Einaudi. Non è la sola volta che viene a galla, oltre al sopraffino intenditore di poesia, il conoscitore dell’editoria (che vede alcuni libri più adatti a Rizzoli o a Mondadori…).
Quanto ai suoi «Sì», tra i poeti proposti (ma non accolti dall’editore) c’è Giancarlo Majorino («uno dei meglio degli anni Sessanta»); e poi c’è Paolo Bertolani (con versi «notevoli per intelligenza e serietà»); c’è il Milo De Angelis saggista e traduttore dei classici (la sua poesia, «sinistra e tragica», gli piace poco pur essendo il meglio del «nuovo ermetismo attuale»); c’è, consigliato da Giovanni Raboni, Cosimo Ortesta, ma con qualche seria riserva: «ipercolto e iperastuto (…) un po’ impettito». Si sarà notata l’originalità, non priva di ironia, dell’aggettivazione fortiniana, che rende gustosa e imprevedibile ogni scheda («questo titaneggiante, vitalistico, misticoide»; «tematica viscida» eccetera). Per non dire dei «prodotti» prevedibili (di moda?), definiti «non convenzionali ma convenzionati, come si dice delle cliniche che hanno rapporti privilegiati con certe mutue».
C’è molta poesia, ma anche altro, e non colpisce troppo la vastità dei campi su cui Fortini si esprime: narrativa, critica, teoria della letteratura, saggistica varia, spaziando per diverse culture linguistiche, a partire dalla tedesca, sua privilegiata, seguita dalla francese, dalle inglesi, dalle spagnole, eccetera fino alla polacca. È qui che si trovano gli entusiasmi maggiori di Fortini. Per esempio, per un Slawomir Mrozek che «ha la vivacità e la verità delle cose autentiche»; e per un Adolfo Bioy Casares «perfetto», «un unicum» degno di essere analizzato da Sigmund Freud («Diamine, leggetelo»): siamo nel 1962, il libro, L’invenzione di Morel, uscirà da Bompiani nel 1966 e, come profetizza Fortini, diverrà un film nel 1974. Il caso di Gianni Celati è diverso: il suo primo romanzo, Lunario del paradiso, non convince per il tema «canonico e da basso-film», per quel certo «verismo vernacolare» che «spunta sotto l’aria svampita e allegra del resoconto»: il consiglio è di ridurre il libro alla metà, nel qual caso Fortini sarebbe «favorevole, un po’ a malincuore, alla pubblicazione». A malincuore nel 1979 sostiene anche, per insolite ragioni di opportunità mercantile («le probabilità di rientrare nelle spese sono assai elevate»), il Georges Perec de La vita, istruzioni per l’uso (che uscirà nel 1984, ma da Rizzoli), pur considerandolo vuoto, «iettatorio come un quadro di Magritte; noiosissimo nell’insieme. Perfettamente kitsch come il suo titolo. Contributo alla creazione di sottoletteratura».
Non manca uno sguardo visionario: per esempio, laddove Fortini discute una miscellanea inglese di studi sull’autobiografia, prefigurando che si tratta di un tema «destinato a diventare sempre più importante negli anni avvenire». I curatori (ottima l’introduzione, meno convincenti le note disorganiche e imprecise) ci informano che la prima fase della consulenza si conclude con una rottura a proposito della linea editoriale di Fortini, considerata eccessivamente enciclopedica dall’editore, che gli affianca Franco Lucentini (ma la convivenza durerà pochi giorni). La seconda fase vive momenti di crisi quando Einaudi decide comunque di pubblicare testi caldamente sconsigliati da Fortini: è il caso delle poesie di Luigi Compagnone, sostenute invece da Pampaloni e Attilio Bertolucci. Si sa che Fortini non era un carattere facile, ma fu lui comunque il «perno» della poesia in casa editrice tra gli anni Settanta e Ottanta, nonostante qualche calo di tensione.
Eccola dunque l’«egemonia culturale» in piena azione: impegno, circolazione di idee, affinità, strappi, rimbalzi tra funzionari, consulenti, fiancheggiatori che si chiamano via via Pavese, Massimo Mila, Luciano Foà, Daniele Ponchiroli, Calvino, Ginzburg, Lucentini, Cesare Cases, Sergio Perosa, Claudio Magris, Carlo Carena, eccetera eccetera. Egemonia da intenso lavoro intellettuale a vantaggio della civiltà di un Paese.