Èvenuto il tempo di dire ad alta voce quello che l’intricato mondo della cultura è attenta a non formulare mai. Dire che non solo siamo vittime di un sistema economico violento ma anche che siamo governati da un’ideologia miserabile. Niente di grandioso come nel Novecento, niente di tragico o titanico, davvero solo miserabile, cioè intellettualmente povero, atrofizzato, che non produce narrazioni dignitose di sé. In Realismo capitalista Mark Fisher dice di questa miseria, questo clima mentale in cui il capitalismo è l’orizzonte stesso del pensabile e tutte le alternative sono viste e trattate come ingenuità o patologie nostalgiche. Slavoj Žižek – che di spietatezza se ne intende – ha definito il libro di Fisher «un ritratto della nostra miseria ideologica». Quel ritratto rimosso che ha da fare con la cultura stessa e – in modo crudele – con l’arte e con chi insiste a praticarla tra i rottami di un futuro perduto. Per Fisher il neoliberismo installa sul piano dell’essere ciò che chiama business ontology per la quale esiste soltanto ciò che può essere trattato come impresa, progetto, servizio. Scuole, università, ospedali, musei, teatri, festival, case editrici, riviste e persino singoli artisti sono figure di un unico lessico che parla di governance, stakeholder, performance, brand, impatto, sostenibilità.

 

 

Ingenuamente Horkheimer e Adorno avevano scritto di industria culturale per dire della cultura in forma di merce, ma con Fisher siamo alla fase terminale, un luogo in cui una sola ontologia aziendale decide su cosa deve esistere. La domanda è: funziona? Ovvero produce numeri? Visibilità, ritorni misurabili?

 

 

Tutto ciò che non sta in un foglio Excel viene estromesso dal mondo. Fisher radicalizza il pensiero di Fredric Jameson «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo». La modernità e i suoi deliri vivevano di futuro, per il postmoderno il futuro è solo un gioco di stili, il realismo capitalista riesce ora a mostrare il collasso. Nessuno pensa ad un mondo diverso, solo varianti più o meno digitali, più o meno smart, più o meno catastrofiche. La cultura non fa che adeguarsi. Le istituzioni artistiche ci annoiano con sperimentazioni che generano solo format, mediazione, engagement, partecipazione. La struttura – chi decide, chi paga, chi scompare – resta intatta. L’arte non prospetta mondi nuovi, ridotta solo a decorazione, più o meno piacevole della gestione dell’esistente. Proprio qui si colloca la hauntology fisheriana, luogo di spettri di ciò che non è più e di ciò che non è ancora. Il presente solo una tomba di futuri defunti infestato dai fantasmi di promesse mai mantenute. Utopie moderniste, welfare, controculture, avanguardie politiche si rivedono solo sotto forma di stile, grafica vintage, iconografia di rivalutazioni, sconfitte diventate gustoso merchandising. Se Benjamin voleva la riproducibilità tecnica morte dell’aura, oggi siamo alla crisi della stessa opera trasformata in decoro scenografico su racconti del già avvenuto senza mai riaprire la ferita di ciò che avrebbe potuto essere. Mike Watson con il suo I meme e Mark Fisher è una crudele appendice a quella diagnosi.

 

 

La business ontology che dava l’idea d’essere soltanto un’intuizione teorica esplode in Watson come infrastruttura tecnica: esiste solo ciò che può essere messo in abbonamento, raccomandato da un algoritmo, inserito in un bundle mensile. L’opera si trasforma in un episodio intercambiabile, parte di un ecosistema privo di interesse per quanto va oltre la cattura algoritmica dell’attenzione. Prima, perdita dell’aura, ora perdita dell’opera smembrata in clip, episodi, newsletter, aggiornamenti. Si paga solo per non interrompere il flusso. L’artista non vale per la forza di ciò che fa ma quasi solo per la regolarità con cui produce. Questo è l’orizzonte diagnostico di Fisher carico di un’autentica ferocia. Žižek descriveva l’ideologia contemporanea come cinismo «so cosa faccio ma lo faccio lo stesso». Per Fisher il cinismo genera stanchezza. È l’impotenza riflessiva «se la mia critica è prevista e riassorbita mi ritiro in anticipo. Non mi illudo, mi paralizzo». Qui scaturisce l’edonia depressiva, non l’incapacità di provare piacere ma la volontà di seguire solo piaceri immediati, distrazioni, saturazioni sensoriali, consumo di prodotti culturali sempre più effimeri, brevi, intercambiabili. La psiche non sopporta più il vuoto, ma non trova la forza di attraversarlo. Chi fa arte sa che questa non è teoria, è il contenuto dei giorni. Franco “Bifo” Berardi ha da tanto raccontato della depressione come impossibilità di proiettare il desiderio verso un nuovo domani. L’artista vive la finzione del suo ruolo alternativo anche se sa benissimo di essere solo decoro e soggetto non indispensabile. Finge – se ha coscienza – di credere alle blandizie del sociale: «La cultura è fondamentale, gli artisti sono la coscienza critica della società» ma la realtà quotidiana mostra un altro volto. Marginalità, precarietà cronica, cachet ridicoli, dipendenza da burocrazia feroce fatta di bandi illeggibili, algoritmi, board di fondazione.

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