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Solidarietà e monumento: un atteggiamento spontaneo di comprensione, condivisione e supporto che diventa testimonianza, simbolo visibile della commemorazione di un evento o di una persona a memoria dell’intera collettività. Per Sonya Clark (Washington 1967, vive e lavora a Amherst, Massachusetts) che ha improntato tutto il suo lavoro multidisciplinare sulla giustizia sociale in una chiave di rivendicazione e simbolico smantellamento della supremazia bianca, si tratta di dare forma a un processo artistico fortemente connesso con la consapevolezza e la guarigione, anche attraverso l’approccio all’arte relazionale con il coinvolgimento diretto del pubblico e di partecipanti a workshop.
NELLA MOSTRA Sonya Clark: We Are Each Other al Mad di New York (fino al 22 settembre), tappa conclusiva dell’antologica organizzata insieme al Cranbrook Art Museum nell’area metropotana di Detroit e all’High Museum of Art di Atlanta, il fil rouge di un linguaggio che pone in primo piano questioni legate all’identità in relazione all’«americanità» è affidato ai capelli afroamericani, segno di appartenenza e orgoglio insieme al filo usato per la tessitura. «Sono nata a Washington DC da uno psichiatra di Trinidad e da un’infermiera della Giamaica – dichiara l’artista – Ho imparato ad apprezzare l’artigianato e il valore dell’oggetto fatto a mano principalmente dalla mia nonna materna che era una sarta professionista. I miei familiari mi hanno insegnato la preziosità di una storia ben raccontata ed è per questo che apprezzo le storie racchiuse negli oggetti».
NEL 2008 UTILIZZANDO oltre tremila pettini di plastica nera a denti stretti tutti uguali – creando pattern geometrici con l’eliminazione progressiva di un certo numero di denti – nasceva il ritratto monumentale Madam C. J. Walker, il tributo di Clark a Sarah Breedlove (nota come Madam C. J. Walker) la prima donna afroamericana che, nata in Louisiana da genitori che prima della fine della Guerra civile erano stati schiavi, divenne imprenditrice milionaria ma anche filantropa e attivista, inventando e brevettando un prodotto per la cura dei capelli che sosteneva esserle stato rivelato in sogno.
Riallacciandosi alle radici della cultura yoruba (uno dei gruppi etnici più grandi del continente africano; molti di loro durante la tratta degli schiavi furono trasportati con la forza in America e ancora oggi la loro religione è alla base della Santeria, degli orisha, del candomblé e di altre forme sincretiche di culto, in particolare nei paesi caraibici e in Sudamerica) che affidava a capelli e acconciature un ruolo significativo che va oltre il concetto di bellezza, l’artista dedica loro grande attenzione a partire da opere come Wig series (1998) e The Hair Craft project: Hairstylists on Canvas (2013).
IN ENTRAMBE AFFIORA la memoria della straordinaria documentazione fotografica realizzata sistematicamente da J. D. ‘Okhai Ojeikere a partire dagli anni Sessanta delle acconciature delle donne nigeriane. Viste dal lato posteriore le teste si stagliano da un fondo bianco: l’inquadratura ravvicinata rivela la complessità e la qualità scultorea degli intrecci dei capelli. Diversamente dal fotografo nigeriano che attraverso il linguaggio fotografico intendeva sfidare l’impermanenza di questa forma d’arte rendendola immortale, Sonja Clark è più interessata alla componente concettuale. In The Hair Craft Project: Hairstylists on Canvas è lei stessa a posare mostrando di spalle le acconciature, accanto a coloro che le hanno realizzate. Nella serie di fotografie a colori l’intreccio non è solo quello visibile delle pettinature, ma intercetta a livello subliminale le relazioni che si sono incrociate e sovrapposte con i parrucchieri esprimendo una conoscenza condivisa, la continuità della tradizione nonché la sua interpretazione creativa.
Prima ancora, nelle opere tridimensionali della serie Wig, quelle che possono sembrare a prima vista parrucche o copricapi contemplano un riferimento diretto proprio alla cultura yoruba che considera la testa come sede dell’anima. «Li pensavo come altari del nostro destino collettivo e individuale», afferma Clark. I capelli sono «un cordone ombelicale del proprio albero genealogico: quelle ciocche sono i tuoi antenati». In altre opere il loro impiego in un contesto di arte partecipata è associato alla musica e alla poesia. In Hairbows for Sounding the Anchestors (2014), la violinista jazz Regina Carter suona un brano con l’archetto realizzato con i capelli neri dell’artista e capelli biondi insieme a crini di cavallo, mentre tra le opere dedicate alla poesia il video Haircut for a Poem (2016) è la memoria del progetto in cui Sonya Clark, in occasione di O, Miami Poetry Festival il 15 aprile 2016 ha offerto ai cittadini di Miami un taglio di capelli gratuito purché recitassero la poesia The Distant Drum di Calvin Hernton. Con l’ashtag #poemforahaircut poesia e taglio di capelli potevano essere liberamente condivisi sui social media.
NELL’OTTICA della celebrazione del potere dei capelli Clark, che con il grafico Bo Peng ha realizzato da una sua ciocca il glifo a cui è stato dato il nome di Twist, ha poi collaborato con le poete black Rita Dove, Samiya Bashir, Nikky Finney, Shayla Lawson, Aja Monet, Morgan Parker e Nicole Sealey alla tralitterazione dei loro versi dall’alfabeto latino al Twist: chiamando il numero 1-877-687-2875 sì può ascoltare la recitazione dei componimenti. Un’altra importante sezione di We Are Each Other (il titolo della mostra s’ispira a una strofa di Paul Robeson scritta nel 1970 da Gwendolyn Brooks, prima poeta e scrittrice afroamericana a vincere nel ’50 il Pulitzer) è dedicata al tema della bandiera, esplorata per il disvelamento e la denuncia del razzismo. In particolare in Monumental Cloth, The Flag We Should Know il riferimento è al frammento di tessuto bianco con le due strisce rosse alle estremità che ha rappresentato, nella primavera del 1865, la fine della Guerra civile: una bandiera della resa divenuta simbolo di un nuovo inizio.