Un anno fa, nell’afa raggiante di Piazza del Popolo, i giornali, le tv e gli altri media italiani sono andati a cercare Michela Murgia al suo funerale. Hanno intervistato persone celebri che la conoscevano, altri intellettuali convenuti, membri della famiglia queer che, in quelle settimane, lei andava raccontando. Hanno inquadrato le prime file della chiesa gremita, la foto scattata da Chiara Pasqualini che avevamo messo accanto alla sua bara, la bara stessa. Michela, però, non era da quelle parti. Non compariva in quelle immagini e video. Michela, come sempre, era in piazza.
Lì l’ha trovata la corrispondente del New York Times, che è andata invece a intervistare le laureande, le pensionate, i lettori, gli studenti, e tutta quella folla colorata che, in treno o in bus, a piedi, persino in aereo era giunta nel cuore di Roma in piena estate per salutarla, come una tempesta senza nuvole né pioggia. Una folla di fulmini senza tuoni. Rileggo quell’articolo del Timese ci trovo una ragazza, Maria Luisa, che diceva che le parole di Michela vanno tradotte in pratiche. Ci trovo una signora, Patrizia, che ammetteva di non essere mai andata prima al funerale di una persona che non avesse mai incontrato, «nemmeno quando è morto il Papa».
Un anno dopo, Michela è sempre lì mi pare. Non in Piazza del Popolo, ma nelle mille altre piazze (reali o virtuali) in cui ci si raduna spontaneamente a leggerla e commentarla, a ragionare su quel che ha scritto e detto, a dipingerla sui muri e a sollevare cartelli col suo volto e le sue citazioni. È presso la gente che continua ad essere toccata nel profondo dalle sue gesta, dal suo mito e, soprattutto, dalle sue parole, anche senza averla mai incontrata di persona. Questo è il messaggio che ricevo più spesso: «Non la conoscevo, non l’ho mai incontrata, ma mi ha cambiato la vita».
Gli screenshot
È l’unico, tra i suoi molti meriti, di cui si vantasse senza ironia, la giustificazione per qualsiasi fatica e dolore: «guarda», diceva sventolando screenshot di messaggi analoghi in cui le dicevano di aver denunciato un sopruso sul lavoro, o di aver lasciato un compagno violento, o di aver fatto coming out dopo averla letta e ascoltata. «Guarda: sto facendo il mio lavoro, non posso smettere, anche se mi vengono tutti contro». Cambiare le cose è sempre stato il lavoro di Michela, il compito che si era assegnata. E lo è ancora oggi.
Infatti continuano a scrivermi quel che scrivevano a lei, e io rispondo che averla incontrata o meno di persona non ha alcuna importanza. Incontrarla oggi in biblioteca o in libreria, invece di averla incontrata l’anno scorso a Trastevere o dieci anni fa nel Campidanese, è quello che conta. Non c’è un incontro più vero di quello.
L’altro messaggio che ricevo spesso a proposito di Michela Murgia è più semplice e struggente. «Manca», mi scrivono. Si scusano subito, dicendomi che sicuramente mancherà ben più a me che a loro, ma non so se è vero. Io i libri di Michela ce li ho tutti, anche quelli che non sono ancora usciti.
In un modo o nell’altro la leggo praticamente ogni giorno, perlustro il suo archivio pieno di sorprese, scandaglio i venti anni di chat che ci siamo scambiati. Mi sento straordinariamente privilegiato nella mia nostalgia, anche se continuo a sognare di trovarla in un parco vicino a via Mameli, seduta per terra lungo una scala nascosta dietro le rocce — nel sogno le dico sempre, come un cretino, «ecco dov’eri!».
I progetti
A quanti orfani è dato il lusso di ore e ore di registrazioni, pagine e pagine di storie, saggi, articoli in cui ritrovare, lucida e chiara come sarà per sempre, la voce di chi hanno perduto? È semmai nei confronti della mancanza che sentono le altre, gli altri, che provo compassione in questo lutto, che sento di avere una responsabilità. Sono anche loro (siete anche voi, probabilmente) orfane e orfani d’anima di Michela Murgia.
Perciò quest’anno l’ho speso, come tante e tanti che amano Michela, a curare e diffondere quel che lei ha avuto il tempo di articolare in parole nella sua fulminante esistenza letteraria e politica, cominciata tardi e finita presto ma mai andata fuori tempo nel presente che ha cambiato come un benefico virus. Ognuno lo fa a suo modo: c’è chi continua i suoi progetti, chi la porta a teatro o in sala di registrazione, chi si organizza su telegram e chi nei centri sociali; c’è chi ne parla con amici e nemici, chi scrive tesi di laurea e chi scrive post online. Io curo. La curatela dei suoi scritti è il modo che mi è toccato per rispondere alla mancanza con una presenza; con il presente che a Michela si addice.
L’aereo che mi ha riportato negli Stati Uniti dopo il funerale di Michela faceva scalo a San Francisco. Nell’aeroporto di San Francisco c’è una specie di tavola calda che fa cibo coreano. Seduto in quella tavola calda, con una matita a forma di rana che un confidente di Michela (un illustratore straordinario, che in casa ha un’iguana gigantesca e smeraldina) mi ha regalato, mi sono messo a scrivere una cosa che ho poi postato su instagram.
Diceva così: «Il lutto che si consuma per Michela è collettivo perché è anche il lutto per la dignità del lavoro, che ha raccontato ne Il mondo deve sapere. È il lutto per la cultura di una terra e di un popolo martoriati dal colonialismo, che ha raccontato in Viaggio in Sardegna. È il lutto per l’appartenenza non di sangue, e per la dignità della morte, che ha raccontato in Accabadora. È il lutto per i sogni della generazione X, e di quelle successive punite dal neocapitalismo, che ha raccontato in Futuro interiore. È il lutto per le comunità che risolvono in sé i conflitti, che ha raccontato neL’incontro. È il lutto per le antiche ipotesi femministe e atavicamente inclusive della fede cattolica che ha raccontato in Ave Marye in God Save the Queer. È il lutto per l’apprendistato come parentela, e per la libertà di smarcarsi dalle condizioni in cui si nasce, che ha raccontato inChirù. È il lutto per il fantastico e per il potere che unisce subalternità etnica e di genere che ha raccontato in L’inferno è una buona memoria. È il lutto per la possibilità di avere pane e rose pur essendo una killjoy che ha raccontato, con Chiara Tagliaferri, in due volumi e molti podcast di Morgana. È il lutto per la solidarietà verso gli intellettuali di coraggio, che ha raccontato in un celebre articolo su V dei BTS per il Post. È il lutto ancora da elaborare per il Covid, per lo spettro della malattia e dell’inconscio che prende la forma di piatti rotti e topi ammazzati, che ha raccontato in Tre ciotole, coi giorni contati e un senso trascendente di responsabilità. È il lutto per gli autori e le autrici che ha raccontato in splendide introduzioni, tra cui spiccano Antonio Gramsci, Grazia Deledda e Paola Masino. Un poeta cantava «in the si radunano tutte le morti, tutti i vetri spezzati». Michela Murgia raduna in sé, come ha sempre fatto, tutti i vetri spezzati. E, splendendo, proietta arcobaleni su tutti i muri. Il lutto per lei è anche il lutto per certe cose che c’erano. E che ci saranno, credo. Se leggiamo. E se leggendo ci ricordiamo, ci avviciniamo, assecondiamo la sete di bellezza e giustizia che i libri, grandi e piccoli, suscitano, rivelando quel che manca».
Il vuoto
Ecco, più che mancare, Michela rivela quel che manca. La sua assenza è un’epifania, una rivelazione appunto. Ci fa incapaci di accontentarci di quel che c’è — degli scrittori e giornalisti che non si espongono per paura di perdere lettori e click, del Paese che non si vergogna di spiattellare transfobia, misoginia e razzismo in prima pagina, del mondo che non denuncia e non interrompe massacri inumani. Mancando Michela, ci accorgiamo più vividamente di tutto questo ogni volta che contempliamo la bruttezza, l’ingiustizia, la prepotenza e ci domandiamo che cosa avrebbe detto lei.
Il lavoro di Michela Murgia è quello di cambiare le cose e, forse, l’epifania della sua assenza è un catalizzatore di quel suo potere, perché ci costringe a fare i conti col fatto che, senza più lei a mettere il suo corpo nelle battaglie che ci riguardano, siamo noi a dover rispondere alle chiamate etiche, politiche e spirituali di questo pressante presente.
A quel mio post su Instagram, un anno dopo, aggiungerei che il lutto per Michela è anche il lutto per la maternità d’anima, cioè per la guida gratuita e responsabile, senza vincoli di legge o biologia, che ha esercitato con me e con chiunque sia cambiato incontrandola, e che ha raccontato inDare la vita, da qualche giorno disponibile in tutte le edicole d’Italia. È il lutto per l’ostinazione che il femminismo, in questo tempo di recrudescenze dei più beceri istinti collettivi, continua a richiedere, e che ha raccontato nel prossimo, terzo volume di Morgana, in uscita in autunno assieme a una nuova edizione di L’ho uccisa perché l’amavo.
È il lutto per lo spregiudicato modo in cui, partendo da un paesino e senza risorse né ascendenze, si può ambire a cambiarle davvero le cose, come lei continua a fare e come ha raccontato a Beppe Cottafavi in Ricordatemi come vi pare, il suo ultimo libro (Strade blu, Mondadori). È il lutto per l’attesa che i suoi libri generavano in chi ha sete di letteratura e ne rivendica, senza timore di apparire semplice o buonista, l’impegno. Per quest’ultimo lutto non ho ancora un titolo di Michela Murgia da associare, ma non temete. Entro l’anno prossimo, ce ne sarà uno nuovo.