News
18 Luglio 2023Via Francigena per tutti. Turismo sostenibile e accessibile in Piemonte
19 Luglio 2023Politica e cultura
di Ernesto Galli della Loggia
In Italia come in tutta l‘Europa occidentale e negli Stati Uniti è sempre più visibile un peggioramento qualitativo della classe politica. Qui da noi la cosa è particolarmente evidente: è un declino abbastanza impressionante nella preparazione culturale, nella capacità di orientamento e di direzione, nei comportamenti, perfino nella proprietà del linguaggio e nell’abbigliamento. Conta senz’altro la virtuale scomparsa dei vecchi partiti con la loro capacità di selezione del personale politico. Ma proprio perché si tratta di un fenomeno non solo nostrano bensì dell’Occidente in generale e che riguarda tutta la classe dirigente, si deve pensare che il peggioramento di cui stiamo parlando sia prodotto da qualcos’altro che non sia la presenza di una determinata forma-partito o dei suoi meccanismi di selezione.
Questo qualcos’altro è la scuola. È il sistema d’istruzione che ormai si è affermato nei nostri Paesi e al quale naturalmente anche le classi politiche devono la loro formazione. Non mi soffermo sul fatto, pur importantissimo, che si tratta di un sistema che almeno in Italia è da tempo scadente (e quindi non può che produrre persone in media culturalmente scadenti, parlamentari compresi come si capisce), perché ciò che adesso mi preme notare è altro. E cioè che da noi come dappertutto, la formazione del ceto politico è quasi sempre una formazione di tipo umanistico.
In nessun Paese europeo, infatti, a cominciare dal nostro, c’è mai stato un uomo politico di rilievo, e tanto meno una personalità di governo, un primo ministro o un ministro importante, il quale provenisse da studi tecnico-scientifici: ad esempio un ingegnere, un biologo, un fisico. Da sempre, insomma, tranne rarissime eccezioni — ad esempio la cancelliera Merkel: ma è appunto l’eccezione che conferma la regola — l’intera classe politica europea e quindi anche quella italiana è stata formata da uomini (solo in tempi recenti anche da donne) la cui formazione è avvenuta seguendo uno di questi tre indirizzi di studio: quelli letterari, quelli giuridici o quelli economici. Quelli che si chiamano per l’appunto gli studi umanistici.
Dovrà esserci un motivo: probabilmente — avanzo l’ipotesi — perché le discipline umanistiche si sono rivelate quelle in grado di fornire i migliori strumenti per praticare con successo due dimensioni specifiche dell’agire politico. Da un lato la conoscenza delle società umane con la conseguente possibilità di comprenderne i bisogni e i moventi basilari, di interpretarne (e sfruttarne) i meccanismi psichici singoli e collettivi: potendo quindi in tal modo interloquire proficuamente con i suoi membri per ottenerne il consenso. Dall’altro le discipline umanistiche, addestrando a cogliere i caratteri e i movimenti di fondo di una determinata società, addestrano meglio di altre a fare sintesi, a definire l’interesse generale nel quale quella società può riconoscersi e sul quale impegnarsi.
Essenziale e determinante per tutto ciò, come si capisce, è stata la familiarità con la dimensione della storia propria di ogni formazione umanistica, assente viceversa in quella scientifica. È solo conoscendo il passato, infatti, intendendo i valori e le cause profonde e interconnesse di ogni realtà sociale, conoscendo i loro molteplici risvolti psicologici, che è possibile immaginare il probabile svolgimento di questa realtà e le relative conseguenze in modo tale che risulti più facile prendere le decisioni che riguardano quella realtà medesima. Indirettamente, insomma, la storia si presenta come un grande e prezioso deposito di sapere sociale, la sua conoscenza come la premessa necessaria per l’elaborazione di qualunque cultura e strategia politica. La politica e la storia insieme (e insieme alla geografia: è mai pensabile un esponente di governo che ignori i confini delle Marche o quali Paesi bagna l’Oceano Indiano?), la politica e la storia insieme, dicevo, costituiscono da sempre le coordinate che definiscono la sfera pubblica in Occidente. Senza la storia la politica è cieca, e la storia che rinuncia alla dimensione della politica è destinata a perdere la propria identità.
Ormai sono alcuni decenni però che in Occidente la storia sta subendo un processo di espulsione dal canone culturale dominante. Oggi, nelle idee correnti, nel modo di giudicare l’universo dei valori, di guardare al passato, dappertutto, su un criterio storico prevale un criterio moralistico perlopiù ispirato alla prospettiva dei diritti individuali. Per giudicare quanto accaduto un secolo, due secoli fa quello che un tempo era il tribunale della storia sembra essere diventato un tribunale e basta. Il «politicamente corretto», la cultura «woke» che rimuove le statue e dà l’ostracismo a Winston Churchill perché era uno «sporco colonialista» (come se a suo tempo non lo fosse stato anche Karl Marx…) è diventato l’orientamento ideologicamente «avanzato» sostenuto da un implacabile dispositivo ricattatorio.
Un pervadente orientamento antistoricista ha colpito in generale tutta la formazione umanistica. Non solo ad esempio un po’ dovunque e anche in Italia è stato ridotto il numero delle ore dedicate all’insegnamento della storia (quello della geografia è stato addirittura cancellato), ma ad esempio anche nelle facoltà di Economia e di Giurisprudenza prevalgono ormai di gran lunga le materie orientate in senso tecnico-specialistico, le materie d’immediato uso professionale, su quelle formative incardinate in una prospettiva generale di carattere storico. E così pure nell’ambito degli studi di natura più schiettamente letteraria o filosofica o artistica è virtualmente finito il dominio assoluto che fino a l’altro ieri vi aveva la dimensione storica. Da gran tempo ormai i paradigmi didattici e interpretativi che vanno per la maggiore sono quelli genericamente strutturali e funzionalisti. I programmi e i curricula della scuola di ogni ordine e grado ne sono lo specchio fedele.
Nella nostra civiltà e specialmente nella nostra formazione, insomma, l’umanesimo, la letteratura e la storia che così a lungo lo hanno nutrito sono in precipitosa ritirata. Ma ciò vuol dire una frattura drammatica: che è in ritirata qualunque autorità del passato o che sul passato si fonda. Vale a dire che si sta dileguando quell’autorità che per secoli, insieme all’esperienza religiosa, ha rappresentato la via principale d’accesso alla formazione della libera individualità e a tutto ciò che di essa è premessa o conseguenza, a cominciare dalla libertà politica. La fine dell’esemplarità del passato — di questo caposaldo assoluto della formazione umanistica — ha voluto dire il venir meno di una fonte d’ispirazione decisiva perché non dico in tutti, ma almeno in qualcuno, mettesse radici un senso della giustizia e una devozione al bene pubblico, una cura della dignità e un’aspirazione alla grandezza, destinate a rivelarsi preziose per lo sviluppo della nostra civiltà.
Nelle scuole della Repubblica popolare cinese sono sicuro che si tengono ottimi corsi di fisica atomica e di biologia molecolare ma che delle «Confessioni» di Agostino o degli «Annali» di Tacito nessuno ha mai sentito parlare. È proprio sicuro che a noi in Occidente convenga cercare di imitarle?