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Prima il romanzo di Tomasi, poi il film viscontiano, ora la serie Netflix. Storia di un’ossessione nazionale
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Al telespettatore pagante che in questi giorni si avventurasse nel sempre più composito mondo delle “piattaforme” e magari fosse poco informato sugli ultimi ritrovati, verrebbe subito da chiedersi: ma la figlia del principe di Salina, Concetta, che ci fa innamorata della fluida madre superiora Jasmine Trinca? Cambia sponda per via del rifiuto di Tancredi? E la suorina di “L’Arte della Gioia” invece com’è che nella solita stupenda villa Valguarnera non incontra mai il principone Kim Rossi Stuart (che tutti però chiamano “Gattopardo! Gattopardo! Come se fosse un nome d’arte tipo Olly o Tony Effe) con la numerosa famiglia compreso l’ingrugnato e borbonico primogenito duca Paolo?
Siamo dalle parti, si è capito, del Gattopardo, il nuovo sceneggiato Netflix che aggiorna il racconto di Tomasi di Lampedusa dopo il kolossal viscontiano del ‘63. E però com’è come non è, alcune location son proprio le stesse identiche di “L’arte della Gioia”, regia di Valeria Golino e scritta tra gli altri da Francesca Marciano, storia per Sky di un’orfana che si fa strada nella Sicilia dei primi del Novecento, dunque solo una quarantina d’anni dopo le vicende gattopardesche. Anche qui, romanzo postumo, rifiutato da vari editori, proprio come quello di Tomasi. Di nuovo, la madre superiora poi dell’“Arte della gioia” è astronoma come il principe del Gattopardo, ed è tutto un arrampicarsi con enormi telescopi per veder le stelle!
Goliarda Sapienza non è diventata ancora però proverbiale, non c’è un aggettivo come “gattopardesco”. Invece Tomasi di Lampedusa è diventato un instant classic, che non smette di creare indotto. Ecco il volume “Il Gattopardo a guardia del muro”, di Bernardina Rago appena uscito per Feltrinelli, su come “il romanzo considerato eretico dalla sinistra ortodossa diventò simbolo del nuovo corso socialista nella Ddr” (il Gattopardo nella Ddr sembra un po’ “Boris”); ma il 27 marzo ci sarà anche il prestigioso convegno Netflix-Studio Ambrosetti su “L’Italia del Gattopardo” con il portavoce di Mattarella Giovanni Grasso, la responsabile di Netflix Italia Tinny Andreatta e la ceo dei vini Donnafugata, nel frattempo diventati un brand! E pure “Airbnb celebra il ritorno sugli schermi de ‘Il Gattopardo’ proponendo una selezione di soggiorni capaci di far rivivere il fascino signorile siciliano. Dai palazzi nobiliari con affreschi e arredi d’epoca alle ville immerse nella campagna siciliana tra balli sontuosi, giardini profumati e terrazze affacciate su panorami mozzafiato”, si legge in un comunicato.
Sì perché tra scandali, convegni, dibbbbattiti, il Gattopardo ha creato un mondo, quello della Sicilia come la conosciamo oggi. Senza il Gattopardo non esisterebbero Dolce & Gabbana, di cui ogni tanto lo sceneggiato Netflix sembra un po’ una pubblicità, non esisterebbe Noto e gli sposalizi degli influencer, non esisterebbero i commissari e gli ispettori; anche, l’idea della Sicilia bella e “irredimibbbbile” con molte b, riarsa! Metafora dell’Italia!
Con tantissimi prìncipi – Italo Calvino sosteneva che esistono più nobili in Sicilia che nel resto del mondo messo insieme, perché i vari sovrani che si succedevano nel tempo per non aver rogne coi locali distribuivano corone tipo superbonus; effettivamente a Palermo essere marchese è l’equivalente di essere ragioniere sul continente, conte è come geometra, devi essere almeno duca, o appunto principe, per essere presentabile (baroni, lo sono tutti).
Ma adesso con la serie giù tutti a cercare differenze e discrepanze con l’originale! Intanto la Concetta cessa (scusate, ma dice che è finito il woke) dell’originale è sostituita dalla bella Benedetta Porcaroli (si capisce, qua ce deve sta er conflitto, sennò l’algoritmo come fa?). Ed è tutto una minaccia di tornare appunto in convento, quello della “Beata Corbèra” antenata dei principi di Salina, nella realtà Santa Isabella Tomasi.
Il ballo famoso invece che alla fine è all’inizio, col nordico colonnello conte Bombello (inventato) che riesce a ballare con Concetta solo a patto di dare a Salina il permesso di andare in villeggiatura (il principe di Salina più che per la fine del suo mondo, dei Borbone, del suo patrimonio, ecc.) è preoccupato nella versione Netflix soprattutto di non poter andare in vacanza, forse questo un cliché degli italiani visti dall’estero, del resto dal regista Tom Shankland agli sceneggiatori Richard Warlow e Benji Walters le “menti” son tutte straniere.
Invece gli attori tutti a km zero. Tancredi interpretato da Saul Nanni già young Rocco Siffredi in “Supersex” e figlio di Rossi Stuart in altre produzioni va bene, anzi è più filologico, magro com’era il Tancredi del romanzo, “quattro ossa incatenate”. Deva Cassel-Angelica è giustamente torva e sexy come probabilmente doveva risultare anche Claudia Cardinale nel ’63 e però parla più pratico, di “piccioli” con aria da tiktoker a Courchevel. Il Padre Pirrone di Paolo Calabresi è meno mobile del Romolo Valli originale ma non stona, certo alla fine dei molti silenzi invece del pensoso “eccellenza” con cui rimprovera il principe uno si aspetta sempre di sentirgli dire “Merda!” come l’indimenticabile capo elettricista Biascica agli stagisti di “Boris” (qui invece “Merda” è il nonno rustico evocato di Angelica, che nel romanzo era “Peppe ’Mmerda”). Forse per semplificare la traduzione estera.
Il sindaco di Donnafugata, don Calogero Sedàra, interpretato da Francesco Colella, è quasi meglio dell’originale di Paolo Stoppa, più vibratile e untuoso. Ma se la regia e sceneggiatura sono forestiere il cast è appunto tutto locale – al contrario del Gattopardo originale, dove c’erano Burt Lancaster, Alain Delon, Serge Reggiani… Dunque, oggi, attento scrupolo sovranista? Timing invece un po’ forse “andato lungo” per la bella fiction di Goliarda Sapienza, dove il convento è un ricettacolo di allegre suore lesbiche: come lo prenderà il mondo nuovo trumpiano, anti woke eccetera? Perché nel frattempo si son tutti riposizionati. Qualche anno fa per esempio si andò con uno dei due cofondatori di AirBnb, Joe Gebbia, miliardario siliconvallico, a fare una intervista sulle sue origini sicule (di un paese del palermitano, Mezzojuso). Gebbia aveva 4 miliardi di patrimonio, era in prima fila per diritti & minoranze, come tutti allora, arrivammo a Mezzojuso e l’americano fu accolto come il principe di Salina a Donnafugata. Alloggiava nel palazzo Lampedusa appena trasformato in B&B ma non aveva idea di cosa fosse “The Leopard”, un po’ come Kim Rossi Stuart che intervistato da Paola Jacobbi sul Venerdì ha detto di non aver mai letto il libro né visto il film di Visconti, vabbè. Oggi il gattopardo siliconvallico è diventato uno scatenato trumpiano pure lui, in mezzo agli sciacalli della profezia di Salina e frase del libro celebre seconda solo al “purché tutto cambi” – “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene”.
Riadattato ai tempi d’oggi è anche lo spiegone che inizialmente con agile uso di sottotitoli avverte lo spettatore che fosse capitato per caso davanti alla serie, magari scambiandola per “White Lotus” della passata stagione, che siamo in un “period”, film in costume, e precisa appunto che l’Italia fino all’Ottocento era composta di piccoli staterelli, che i Borbone, che i Savoia, ecc. (ma un utente nordamericano liquiderà forse tutto con un “TLDR”; too long, didn’t read). E magari arrivando a Palermo si chiederà deluso perché non ci sono più carrozze e cavalli e quei begli outfit garibaldini (ma le scene di guerriglia avranno beneficiato da economie di scala con un altro period siculo però targato Disney+, i “Leoni di Sicilia”?). Son talmente tante le serie sulla nostra amata Sicilia che ogni tanto si crea confusione.
Così il 12 aprile scorso anche la ministra del Turismo Daniela Santanchè in visita in Trinacria ha detto solennemente: “Io credo che nessuno possa dimenticare il Gattopardo di Lucchini o altri film bellissimi che sono stati girati in Sicilia. E una serie televisiva, White Lotus, che ha fatto diventare ancora di più questa isola una destinazione turistica”. Il Gattopardo di Lucchini! Intendeva forse Luchino Visconti, il conte?
Un altro conte caratteristico è il suddetto Bombello, colonnello dei garibaldini a Palermo, un nordico un po’ impacciato che nel romanzo non esiste, e corteggia Concetta, sembra un padano riflessivo tipo Willie Peyote, da area C con bici danese. Il principe invece sta sempre nella vasca da bagno, tipo “Saltburn” (anche alcune scene “di corte” rimandano allo sceneggiato dei nobili peccaminosi inglesi, tutti son sempre molto ridanciani e rilassati, mentre nell’originale la famiglia era più cupa a partire dalla principessa, interpretata da Rina Morelli). Anche, si dice molto “buon appetito”, davanti alle frequenti magnate, cosa che avrebbe lasciato sgomenti Lampedusa e famiglia (e Visconti).
Ma inutile cercare differenze, inutile fare paragoni. Lo sceneggiato mette una distanza con l’originale e così dev’essere. Il risultato non è male seppur nell’oleografia da sceneggiato, un po’ Sissi versione “Imperatrice” 2.0 sempre su Netflix. Poi può esser la chiave per inoltrarsi nella Gattopardomania che è materia comunque complessa e frastagliata. Un “Gattopardo” for dummies. Per arrivare al film di “Lucchini”, e vedi mai al libro, che riletto oggi risplende, invecchiato benissimo! E poi i racconti di Tomasi di Lampedusa; le sue lezioni di letteratura francese e inglese; i carteggi con la moglie lettone Alexandra Wolff-Stomersee, prima presidentessa donna della Società psicanalitica italiana, personaggio non facile, che si dice fosse stata allieva di Freud in persona e psicanalizzava camerieri di palazzo Lampedusa a Palermo. E ancora collezionista di mariti gay (ufficiale il primo, su Tomasi non s’è mai trovata la pistola fumante); ma lei non ha mai urlato disperata “these gays are going to kill me”, come Jennifer Coolidge di “White Lotus” spaventata sempre in Sicilia.
Son tutte storie che meriterebbero altre serie: i Lampedusa facevano a Palermo vita poco principesca, poveri e strambi, lui presidente della Croce Rossa provinciale, impataccato, impacciato, lei grossa e con cipiglio baltico. Lui l’aveva conosciuta a Londra presso lo zio Pietro Tomasi della Torretta, ambasciatore molto antifascista, poi anche primo presidente del Senato dell’Italia liberata (Lampedusa morì a Roma in piazza Indipendenza dai nipoti diplomatici Biancheri, una targa lo commemora).
Ma prima, a un certo punto si erano messi in testa d’adottare un parente perché non si perdesse il nome di famiglia, e convocarono un giovanissimo nipote Sirignano-Grazioli ramo palazzo Grazioli. Ma questi parenti erano e sono ricchissimi, abituati benissimo. Si videro offrire dai Lampedusa dei cioccolatini bianchi di vecchiaia, inorridirono, se la diedero a gambe, e se Gioacchino Lanza Tomasi fu erede del Gattopardo (diritti d’autore bestiali!) ai Grazioli oggi è rimasto palazzo Grazioli (c’è peraltro un’altra connessione
Tra scandali, convegni, dibbbbattiti, il “Gattopardo” ha creato unmondo,quellodellaSiciliametafora dell’Italia come la conosciamo oggi
Registaesceneggiatorituttistranieri, e cast tutto a km zero, il contrario dell’originale di Visconti. O di “Lucchini”, per dirla alla Santanchè La vita di Tomasi di Lampedusa e della moglie lèttone a Palermo era tutt’altro che principesca. Lei psicoanalista, in lotta con la suocera Romanzo immobiliare: Tomasi e la moglie erano perseguitati dalla distruzione delle loro case.
Donnafugata crollò col sisma del ’68 tra berlusconismo e gattopardismo: lo scenografo del Gattopardo di Lucchini, pardon Visconti, Giorgio Pes, lavorò per il film e poi arredò i palazzi del Cav., Grazioli compreso, vabbè).
Perché il Gattopardo è romanzo soprattutto immobiliare, spoon river e rimembranza di residenze perdute. Tomasi e la moglie erano due veri “scappati di casa”. Lui aveva ereditato il palazzo Lampedusa in via Lampedusa centrato dalla bombe americane e distrutto (e ricostruito solo 60 anni dopo); più una parte di un altro stabile dove poi si trasferì in via Butera 28, ma oggetto di una clamorosa causa coi parenti, che era partita nell’Ottocento e si concluse nel ’45 con record di durata. Altri traumi immobiliari: il palazzo materno Filangieri di Cutò a Santa Margherita Belice distrutto dal terremoto del Belice del 1968, dove lo scrittore trascorreva le estati da bambino (è quello trasformato nella fantasia nella Donnafugata del romanzo, e anche qui quello dello sceneggiato è più lussureggiante di quello viscontiano, con addirittura un laghetto navigabile! Meglio della Thailandia di “White Lotus” ma senza beauty spa).
A Donnafugata poi inopinatamente mi sembra nel terzo episodio Angelica si lancia in una danza popolare tipo pizzica. Donnafugata- Santa Margherita era fondamentale per Tomasi perché connessa alla mamma mitizzata da questo Proust siculo: Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutò, bella, ricca e inquieta, si diceva che fosse stata all’epoca amante di Ignazio Florio jr. E qui dai gattopardi passiamo di nuovo ai Leoni di Sicilia… Con la nuora fu odio istantaneo della serie “o me o lei”, per cui la baltica se ne stava quasi sempre nel Baltico (di qui il libro di Caterina Cardona “Un matrimonio epistolare”, come fu quello di Tomasi, pubblicato meritoriamente come tanti volumi gattopardeschi in blu Sellerio, primo fra tutti il classico “I luoghi del Gattopardo”, bibbia di noi maniaci, con molte illustrazioni, da poco riedito).
Tomasi di per sé scappava da palazzo la mattina il prima possibile e andava a scrivere in smart working in bar e pasticcerie; la moglie baltica si alzava invece alle tre di pomeriggio ed espletate le sedute psicoanalitiche tentava esperimenti culinari: “Andava pazza per una sorta di aringa marinata con la panna acida”, mi raccontò Gioacchino Lanza Tomasi. “Ma a Palermo non si trovavano aringhe fresche, quindi prendeva quelle affumicate, le sciacquava sostituendo poi la panna acida con la ricotta siciliana. Il risultato era disgustoso e probabilmente la causa principale delle frequenti dissenterie della principessa”. Da questa vita infernale Lampedusa tirò fuori memorie e sogni e fece quel capolavoro.
La moglie, detta “Licy”, era legata pure lei a un mondo letterario di case e casate perdute. In vacanza andavano nel castello avito di Stomersee, poi confiscato dai sovietici (altro dramma immobiliare, era stato costruito a metà Ottocento e poi raso al suolo dai comunisti ai primi del Novecento). Ricostruito, sta a nord-ovest di Riga, quasi sul confine con la Russia, insomma tra poco si troveranno Putin in casa; e chissà se qualcuno dirà “bisogna che tutto rimanga com’è”, e se l’invasore avrà lo charme ingenuo del Bombello.
A Tomasi Stomersee piacque (gli piaceva qualunque cosa, quando riusciva, raramente, a fuggire dalla Sicilia dei parenti, delle cause, delle rotture, dei sogni infranti). A lei non piacquero invece le macerie di palazzo Lampedusa e pretese di andare a visitare il castello di Montechiaro, vicino a Palma; di cui i Tomasi erano appunto duchi, seppur non più proprietari da secoli. Pur distrutto, le ispirò qualche senso di antico potere feudale. Progettò allora una delirante vacanza in tenda all’interno del maniero disabitato, e il principe, che non ebbe mai coraggio di contrastarla apertamente, le fece recapitare un giorno tipo “Amici miei” una finta lettera dei Carabinieri di Palma che pur dicendosi “onorati di ricevere le Loro Eccellenze”, sconsigliavano il viaggio, per “motivi di sicurezza”. Oggi magari nel castello potrebbero organizzare dei glamping gattopardeschi, con degustazioni di grani antichi pre-unitari (e buon appetito a Gattopardo e famiglia, vabbè).